Massimo Giannini

Parlano bene, adesso, le “fonti del governo”. «Non accettiamo», «non consentiremo», «convocheremo». Parole al vento, per ripulire le coscienze e raggirare le maestranze. Ma non serviva la Sibilla Cumana, per prevedere che l’Ilva avrebbe spento i forni. L’avevamo scritto solo dodici giorni fa, il 24 ottobre. Dobbiamo saperlo. Dopo gli americani di Whirlpool, se ne andranno anche gli indo-francesi di ArcelorMittal. E sarà un’altra disfatta per l’Italia, per l’industria, per il lavoro…». È successo, com’era ovvio. ArcelorMittal se ne va davvero. Sono saltate tutte le garanzie a suo tempo negoziate con l’esecutivo sulla tutela penale per gli effetti ambientali del piano industriale: in queste condizioni l’azienda si rifiuta di operare. E dunque, disfatta sia. Da Palazzo Chigi e dai “ministeri competenti” trasuda la rituale ed inutile indignazione che sempre, in questa Repubblica delle Banane, accompagna la rottura dei rapporti tra Stato e mercato. Da maggioranza e opposizione, enti locali e organizzazioni sindacali, precipita la solita e futile pioggia di lacrime di coccodrillo. Ormai il danno è fatto. Ed è colossale, qualunque sia il metro con cui lo si misuri. È un danno economico. L’Ilva di Taranto è stato uno dei migliori stabilimenti siderurgici d’Europa, e ha sfornato uno degli acciai di miglior qualità del mondo. Eppure la sua crisi si trascina da 24 anni. Nel ’95 l’ex Italsider viene svenduta a una sedicente “grande famiglia” del capitalismo privato. Per 17 anni i Riva la spolpano, esportando i miliardi in Svizzera e lasciando le polveri sottili a intossicare la città. Nel 2012 la magistratura sequestra l’impianto e accusa i vertici aziendali di disastro ambientale doloso e colposo, avvelenamento di sostanze alimentari, danneggiamento aggravato di beni pubblici. Per 6 anni l’azienda resta senza padrone e senza missione, tra commissariamenti, amministrazioni straordinarie, decreti di vendita. Dopo 5 governi, 4 commissari, 3,6 miliardi di perdite totali, 2 milioni di tonnellate di acciaio tagliate e 4.100 lavoratori cassintegrati, nel 2018 viene infine acquistata da ArcelorMittal. Un affare da circa 4 miliardi: 1,8 per il prezzo d’acquisto, 1,25 per il piano industriale e 1,15 per investimenti ambientali. Ed è qui che il regolatore pubblico rovina miseramente. Il risultato è devastante. Il Belpaese butta via un settore che vale 24 miliardi, l’1,4% del Pil. Ammaina l’ultima bandiera di un’industria “pesante” che ha già lasciato marcire a Cornigliano, a Piombino, a Bagnoli. Costringe le imprese italiane a importare a carissimo prezzo i 6 milioni di tonnellate di acciaio che servono alla produzione. Condanna 15 mila persone a finire in mezzo alla strada, dopo averle obbligate per un quarto di secolo a subire un ricatto immondo: respirare veleno (dal Pm 10 al benzopirene) pur di avere un salario. La salute in cambio del lavoro. È un danno politico. Sull’Ilva hanno sbagliato in tanti: capitalisti e sindacalisti, ministri e governatori regionali, magistrati e Arpa. Hanno fallito tutti i governi, da Andreotti a Dini, da Prodi a Berlusconi, da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni. Ma nessuno ha fatto peggio degli ultimi due. Il Conte Uno combina il pasticcio più grave: il 6 settembre 2018 Di Maio uno e bino, vicepremier e ministro dello Sviluppo, concorda con ArcelorMittal uno scudo penale per i manager che sa di non poter garantire. Il Conte due, infatti, non lo garantisce e così propizia il disastro definitivo: il 21 ottobre 2019 i Cinque Stelle cancellano tutto con un colpo di spugna in Parlamento, pretendendo il voto di fiducia su un loro emendamento e gridando ancora una volta “onestà, onestà”. Mai come stavolta a sproposito. Sia perché quella tutela giuridica non è una pretesa d’impunità, ma una copertura parziale legata solo all’impatto ambientale. Sia perché in ogni caso è stato il loro capo politico a trattarla e a concederla formalmente agli azionisti dell’Ilva. È possibile che i rapaci indo-francesi fossero già molto perplessi sull’intera operazione. È possibile che cercassero solo un pretesto per rompere i patti. Ma il peccato mortale della politica è averglielo offerto su un piatto d’argento. M5S rimangiandosi la parola data, il Pd lasciandoglielo fare. Per questo, adesso, fanno bene i partiti a chiedere che Giuseppe Conte riferisca in Parlamento (anche se insieme o più di lui dovrebbe riferire l’attuale ministro degli Esteri, ri-folgorato sulla Via della Seta). Ma per questo, ormai, fa anche pena lo “sdegno” fatto filtrare dalla Presidenza del Consiglio, che convoca l’azienda con la pretesa di costringerla a ripensarci. È troppo tardi per l’Ilva, che perde in media 25 milioni al mese. Come prima o poi sarà troppo tardi per le altre 160 crisi aziendali e per l’Alitalia che giace senza più cassa, e in attesa di capire tra Delta e Lufthansa di che morte deve morire, di milioni ne brucia 2 al giorno. Sono botte dolorose per la coalizione demo-stellata, che da due mesi continua a cantare se stiamo insieme ci sarà un perché ma non lo trova. Sono batoste sanguinose per il Pd di Zingaretti, che fa il Cireneo e porta la croce mentre Di Maio e Renzi mangiano popcorn seduti sul ciglio del Golgota. Il segretario si affanna, li striglia, li chiama: ma il suo “toc toc” cade nel vuoto. E magari è lui stesso a chiedersi se valga ancora la pena tirare a campare, o non sia invece meglio tirare le cuoia. Pur avendola approvata in Consiglio dei ministri, infatti, gli alleati riluttanti si guardano bene dal caricarsi sulle spalle la legge di stabilità delle micro-tasse e dei micro-bonus. Ora si può anche dirottare ogni colpa sull’apposito Salvini, come fanno Marcucci sulle spaccature con ArcelorMittal o Gualtieri sulle smagliature della manovra. Ma il “conto del Papeete” non basta più a spiegare né le criticità della fase, né le difficoltà del governo a fronteggiarla. La campana dell’Umbria è suonata per tutti: inutilmente, a quanto pare. Ma se adesso cominciano a venir fuori anche “bombe sociali” come l’Ilva, e la sinistra se le fa esplodere in casa senza neanche averle innescate, allora tanto vale che la Resistibile Armata Giallo-rossa si arrenda subito. Senza neanche aspettare la sicura sconfitta di gennaio, nella battaglia di Stalingrado dell’Emilia-Romagna.