Maurizio Crippa

Che fine fanno, dopo la sfilata, i carri del Carnevale di Viareggio? Spariscono come l’ultima risata, o finiscono accatastati in qualche magazzino di robivecchi, buoni per il trovarobe? E che fine fanno i mostri, quando ci si sveglia dagli incubi? Svaniscono o restavano lì, in qualche armadio? Domande ingenue, le domande dei bambini davanti allo spettacolo che svanisce, allo spavento che si dissolve. Rimangono lì, guardano uno spettacolo che non c’è più ma che gli sembra di vedere ancora: troppo reale per non essere stato vero. Ma domande non poi così infantili, o infrequenti, se in tanti se le sono fatte, continuando a credere di vedere quel che non c’era più e ad ammonire su uno sgomento ormai fuori luogo. Senza vedere il gran cambio di macchine di scena in corso. Puff. Nel momento della massima minaccia del mostro Rousseau, il mostro Rousseau l’han – no portato alla discarica dei simboli politici divenuti inutili. Pensosi e indignati e/o sgomenti sono rimasti in tanti, con il naso all’in – sù. Ad additare la sudditanza della Repubblica a Rousseau, nel mentre che la Repubblica si riprendeva invece il suo posto. Dai tweet di Ferruccio de Bortoli in giù, “#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa”, fino a Francesco “di’ qualcosa di destra” Storace: “La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri”. Ma anche quelli bravi, quelli seri, come Mara Carfagna: “Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione”. Stare appesi a Rousseau, l’umi – liazione Rousseau. Non hanno tutti i torti, teorici, ci mancherebbe. Hanno ammonito con argomenti di prim’or – dine anche i costituzionalisti, il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, “non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità”, o Cesare Mirabelli: “Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione”. Ma intanto, si perdevano lo spettacolo vero. Forse perché un dio acceca coloro che vuol perdere. Non che li faccia diventar matti (amentat), questo no, e neppure ciechi ciechi. Diciamo che, quando vuole, li rende un po’ strabici, o daltonici. Insomma sbagliano l’inquadratura. Come Woody Allen in Hollywood Ending. A parte qualcuno più obnubilato, come Pigi Battista, che ne ha fatto una malattia: “Pur di non andare a quella robaccia populista che è il voto democratico siamo appesi ai verdetti di Rousseau. Siamo il paese più ridicolo del mondo” (tweet). Non tutti cecati, ovviante, uno come Giuliano da Empoli, che conosce gli Ingegneri del caos meglio di tutti, ha spiegato a un giornale francese che il M5s è un animale strano, “non ha programmi, ma solo dei meccanismi di selezione e di decisione interna, con una piattaforma online. Il Movimento cinque stelle funziona come l’algoritmo di Google o di Youtube”, ha detto, e Matteo Renzi s’è preso la bella responsabilità di impedire la minaccia di una presa di poter autoritaria. Adesso si vedrà come andrà la sfida, se i dem saranno capaci di “hackerare i computer dei cinque stelle e re-indirizzarli verso temi progressisti”. Non che sia troppo ottimista, Da Empoli, ma è tra quelli che il cambio di scenografia a sipario aperto l’hanno vista. Quando martedì scorso Luigi Di Maio si è presentato davanti alle telecamere, è accaduta in diretta una trasformazione. Non un fregolismo e un cambio d’abito, quello son capaci tutti. No, lui rimaneva più o meno quel che è, ma il baraccone da cui era appena uscito, il tunnel dell’orrore del luna park digitale, alle sue spalle iniziavano gia a smontarlo. Diceva “or – goglioso di Rousseau”, ma tutto il resto intorno diceva che la scatola magica della democrazia diretta – quella che avrebbe dovuto sostituire il Parlamento, cambiare le regole e votare pure l’impeachment di Mattarella – aveva votato, diligentemente, il quadro politico già approvato da Sergio Mattarella, e il programma già fissato col Pd. Così ha detto questo, di vero, e non di scena: che ora lui, Di Maio, sarebbe stato leader del partito di maggioranza dentro a una coalizione di governo (non più il partner di un contratto tra due entità incomunicabili, ma parte di una coalizione di governo: come ai tempi di Giolitti o di Andreotti). E ha detto che la manovra economica dovrà essere vagliata dall’Europa, non più dalla piattaforma Casaleggio. Ha detto poco, e intanto accadeva qualcosa di importante. Bastava guardare: al teatro della democrazia diretta non credeva più neanche lui. La prossima volta, la grande macchina di scena del voto online non sarà più presentabile, o non in quel formato. E’ il destino delle grandi messinscena politiche, simboli e narrazioni che durano finché servono. Poi rimane solo il problema di dove smaltire la cartapesta. La democrazia digitale è servita (e disastrosamente) per un periodo e un obiettivo specifico: mettere sotto scacco il sistema parlamentare di rappresentanza, la sua legittimità. Ora che il sistema parlamentare ha dimostrato di esistere e loro di volerne fare parte, non serve più (ci perdonerà ‘‘ottimi – smo Giuliano da Empoli) può essere riposto nella grande soffitta dei simboli fuori servizio. Del resto se Ale Dibba, che scriverebbe storto anche sulle righe dritte, ha scritto su Facebook che “piaccia o meno questa è l’ennesima vittoria di Gianroberto”, mentre Di Maio si trasformava in un nipotino del Psdi di Pietro Longo, c’è la prova provata che è accaduto il contrario. O se servisse la certificazione digitale, c’è Debora Billi, ex responsabile della comunicazione web del movimento: “Stiamo facendo tutto l’opposto di quello che Casaleggio ci aveva insegnato”. Siamo ottimisti, ma anche realisti. Rousseau è una truffa ma non è più una minaccia, il M5s è una banda farlocca ma al momento sdentata. Contava di fermare la bufera, smontare il carro di carnevale. Il vento è caduto, sotto la polvere lo spettacolo è diverso. Strano non vederlo, eppure è un fenomeno accaduto molte volte nella storia politica recente: esistono i fatti e i voti e i governi, poi ci sono gli allestimenti teatrali e le narrazioni che distraggono dalla ciccia e servono per altro. Nella Prima Repubblica c’erano due partiti che governavano, e altri che zampettavano attorno come nanetti da giardino, rivendicando o millantando ruoli decisivi per la democrazia. Insieme avevano, misteriosamente, un qualcosa e virgola di voti. E quei voti servivano alla Dc e a Craxi per governare (assieme ai Repubblicani, qualcosa e virgola anche loro, ma erano la virgola di Agnelli). Così legislatura dopo legislatura, opaca crisi parlamentarizzata dopo opaca crisi parlamentarizzata, si allestiva la gran messinscena, loro mollavano i voti, prendevano due seggiole e a Palazzo Chigi facevano tappezzeria. Nessuno si scandalizzava, bastava saperlo. Poi venne il gran carnevale di Viareggio di Mariotto Segni. I maghi dell’illusionismo mediatico, bravi come David Copperfield, riuscirono a far apparire a tutti che c’era un’Italia maggioritaria che scalpitava. La campagna referendaria servì a far fuori i partiti del proporzionale. Missione compiuta, e Variotto col suo ippogrifo di cartone finì dal trovarobe, nessuno sa più nemmeno dove. Ci fu un tempo in cui fummo convinti che il “che fai mi cacci” di Fini fosse accaduto davvero. Ma era l’ologram – ma di una finzione, serviva soltanto far fuori Berlusconi. Poi l’ologramma è svanito, un’ombra pallida in direzione Montecarlo. La macchina scenica politica più importante dell’ultimo decennio – tralasciando per un attimo la scenografia di cartone dei Cervelli Elettronici in stile Star Trek della Casaleggio Associati – è stata di gran lunga la Leopolda. Pensateci bene. Aprite (non chiudete) gli occhi e lasciate perdere i contenuti, la politica e persino le persone (la prima Leopolda, nel 2010, il sindaco di Firenze la organizzò in coppia con Pippo Civati: che scherzi che fa la vita), che sono un contorno variabile. Concentratevi sulla scenografia. Si va dalle motorette appese al soffitto alle palle di natale, ai grafici sui maxi schermi alle scarpe leopardate di Maria Elena Boschi (alla quarta edizione) alle t-shirt anti gufi 8ci fu anche il tempo dei gufi) con scritto “io non posso entrare”. La Leopolda è stata perfetta, adatta ai tempi, in quanto scrittura teatrale (qualcosa di più di un format). Invece della solita convention di piazza o di partito, era sviluppata su un palcoscenico multiplo, come uno spettacolo di Luca Ronconi, di quelli in cui è il pubblico che gira da un attore all’altro, spiluccando il pezzo di narrazione che più lo affascina. Ci si poteva trovare di tutto, dal grande guru della tecnologia ai campioni dello sport, da Bonolis a Roberto Burioni a Farinetti a Baricco a Luca Parmitano. Guidati da un Ariosto affabulatore in camicia bianca: ecco a voi l’Ita – lia del futuro. A cosa servivano, le merci politiche esposte alle Leopolda? A niente di particolare, c’era del buono ma anche molta fuffa, come nelle fiere campionarie. O meglio, servivano a una cosa soltanto: a mostrare che quello era il luogo della sinistra che avrebbe vinto, il futuro era da quella parte. E che invece di là, nella Ditta di Bersani, c’era il brutto e il male, il passato da rottamare. Il gioco è riuscito, forse non proprio alla perfezione. La Leopolda dello scorso anno si intitolava “Ritorno al futuro”, c’era Elena Bonetti, che ora è nel Conte bis. E sarà un po’ difficile vendere lo stesso genere di futuro. La Leopolda, come concept, è finita in soffitfa. Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, che partecipò alla prima Leopolda, due anni fa disse che Renzi ormai era “come Frank Sinatra”, “al concerto d’addio”. Si sbagliava, come molto spesso sull’Italia: Renzi è tornato e se la passa senz’altro meglio di Salvini, e questo è quanto. Però adesso, in modo evidente, dire Leopolda evoca uno spazio abbandonato, costumi inservibili di uno spettacolo finito. Non è colpa di nessuno: è il mondo intorno ad essere cambiato. Ora Matteo Renzi è al governo coi Cinque stelle, difficile andare alla Leopolda a raccontare di essere l’Italia 4.0. Ovvio, certo che sì: la Leopolda 10 invece ci sarà, programmata per ottobre. Ma anche se il nome resta uguale, il maquillage pure, il racconto messo in scena sarà un altro. L’incantesimo della vecchia Leopolda è sparito, a Renzi la macchina ora servirà per sondare le fondamenta di un nuovo partito. Non prendersi il Pd, ma oltre il Pd. Altre macchine sceniche andranno in deposito, c’è da scommettere. Ad esempio l’iconostasi dei rosari di Salvini. Oltre Manica, alla grande mistificazione degli autobus che esponevano i numeri della Brexit, ai pescherecci dei merluzzi traditi dall’Europa lungo il Tamigi non crede più nessuno. Comunque vada. Persino i costumi di scena e i riti di strada dei gilet gialli hanno smesso di far paura. Gli incubi si possono sgonfiare da soli, come nel finale del IT – capitolo due: per distruggere il mostro basta non averne paura, prenderlo in giro come un vecchio pagliaccio. Che fine a fatto IT non lo diciamo, sarebbe uno spoiler crudele. Però il computer di Rousseau è finito nella soffitta dei simboli inutili.