Maurizio Tropeano

Gli stagionati e i freschi. Ecco le due locomotive che, nei primi sei mesi dell’anno hanno trainato la forte crescita delle esportazioni di formaggi e latticini italiani. Il report di Ismea, diffuso in occasione di Cheese che si conclude domani a Bra, mette in luce un deciso cambio di marcia rispetto al rallentamento dell’anno scorso: l’incremento va oltre il 12%, quattro volte l’andamento del 2018 (+3%), il più basso degli ultimi 10 anni. In questo scenario positivo c’è un dato in controtendenza: il Canada. «Le esportazioni di Grana Padano e Parmigiano Reggiano si sono ridotte del -32% scendendo a soli 1,4 milioni di chili», denuncia la Coldiretti che mette sotto accusa l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada (Ceta). Propaganda? A oggi i numeri sono negativi per l’intero settore caseario nazionale: Provolone (-33%), Gorgonzola (- 48%), Pecorino romano e Fiore sardo (- 46%). Perdono quote anche Asiago, Caciocavallo, Montasio e Ragusano (- 44%). Nello stesso tempo il report Ismea mette in luce che l’export verso gli Usa è in crescita grazie all’ottima performance di Grana padano, Parmigiano reggiano (+26%) e dei Pecorini (+28%). E così il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, va all’attacco: «Il Ceta ha legittimato, per la prima volta nella storia dell’Unione Europea, le imitazioni del Made in Italy». dal suo punto i vista la prova di questa accusa sta nel fatto che la produzione del Parmesan in Canada è aumentata del 13% e hanno avuto incrementi «anche ricotta e mozzarella locale, Provolone taroccato e non ben identificato formaggio Friulano». E la Coldiretti mette sotto accusa anche l’accordo tra Ue e Giappone. Ma i ricercatori di Ismea segnalano l’ottimo andamento in Giappone dei formaggi stagionati (+22,8%) e freschi (+24,9%). Si vedrà. Quel che è certo è che il «caso Canada» è destinato a riaccendere le polemiche politiche e anche quelle tra organizzazioni agricole. In ballo c’è la ratifica dell’intesa da parte del parlamento italiano con il ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, che spinge per il Sì. Coldiretti è per il No mentre Confagricoltura – che pur riconosce la flessione – e la Cia sottolineano la bontà di quell’accordo perché come «segnalato dagli industriali di settore, il fenomeno dipende da un’inefficiente gestione delle quote». Dunque «occorre continuare a lavorare per la piena applicazione dell’accordo e riteniamo che il problema possa essere superato a breve». L’analisi delle regole Ma a Bra, tra gli stand di Cheese, si pare un altro fronte. Slow Food International ha analizzato i disciplinari delle 236 Dop e Igp europee del settore caseario e mette in dubbio l’efficacia di questo regolamento, che sebbene resti molto valido nei principi, purtroppo nei fatti viene spesso disatteso a favore di una industrializzazione del prodotto. Al punto che gli allevatori e i casari più rigorosi si trovano costretti a cercare altre vie per affermare l’artigianalità, la qualità e la biodiversità dei loro formaggi. «Abbiamo preso in considerazione una serie di parametri – spiega Raffaella Ponzio di Slow Food International -. Quello sul latte è tra i più significativi: solo il 39% dei disciplinari obbligano a usare latte crudo, mentre gli altri restano vaghi o consentono la pastorizzazione, condizionando fortemente il risultato finale». Anche sulle razze animali la confusione è ampia: 108 disciplinari (46%) non danno indicazioni sulle razze dalle quali deve provenire il latte, pochissimi chiedono ai produttori di allevare genericamente razze «locali» do «del territorio», ma senza specificarne il nome. Sui fermenti, la situazione è ancora peggiore: «L’86% delle Dop e Igp consente quelli industriali ed è anche per questo che Slow food ha lanciato la sua campagna sui formaggi naturali» spiega Raffaella Ponzio. In Italia, se il disciplinare del Parmigiano Reggiano è un esempio virtuoso, lo stesso non si può dire per le regole troppo generiche adottate dall’Asiago e dalla Toma Piemontese. Ma all’estero la situazione non è migliore: in Francia c’è il caso del Camembert ormai industrializzato e in Inghilterra quello dello Stilton, che addirittura obbliga a pastorizzare il latte. «L’auspicio – dicono da Slow Food – è che la situazione migliori, che i disciplinari non siano visti come strumenti di marketing, ma diventino dei veri baluardi della qualità, a salvaguardia del consumatore».