Mauro Favale

«C’è qualcuno oggi che può onestamente dire che la lotta armata era da fare, che ne sia valsa la pena?». La domanda retorica è il passaggio chiave di una “Lettera ai compagni” che dal carcere di Massama, a Oristano, dove è rinchiuso da otto mesi, Cesare Battisti, ex membro dei Proletari armati per il comunismo, consegna a una rivista letteraria on line “di movimento”, “Carmilla”.
È la prima volta da quando è stato arrestato che l’ex fuggitivo (37 anni di latitanza passati tra la Francia e il Sud America), fermato dall’Interpol a Santa Cruz de La Sierra, Bolivia, lo scorso 12 gennaio, decide di parlare. Lo fa con chi, Carmilla appunto, più volte negli ultimi anni ha preso le sue parti, provando a smontare inchieste e processi conclusi con la condanna all’ergastolo per il terrorista accusato di aver partecipato o commesso quattro omicidi (il maresciallo Antonio Santoro, il gioielliere Pierluigi Torregiani, il negoziante Lino Sabbadin e l’agente della digos Andrea Campagna) alla fine degli anni ‘70.
Una lettera nella quale Battisti si rivolge a chi, nella galassia della sinistra più radicale e movimentista, aveva criticato le dichiarazioni che aveva reso a marzo davanti al coordinatore del pool antiterrorismo di Milano, Alberto Nobili e al capo della Digos del capoluogo lombardo, Cristina Villa. «Mi si chiede, era veramente necessario assumermi le responsabilità politiche e penali? Mi chiedo quale necessità muove coloro che si pongono questa domanda », scrive oggi. Al procuratore di Milano, in un interrogatorio in carcere di 9 ore, Battisti aveva ammesso i 4 omicidi che gli sono stati imputati anche nella speranza di poter accedere (non prima di 10 anni, quando ne avrà 74) ai primi permessi premio. Ma intanto, seppur in una vicenda giudiziaria tutta in salita (il suo legale, Davide Staccanella, sta provando a commutare l’ergastolo in una condanna a 30 anni di reclusione), l’ex terrorista, già scrittore di romanzi noir, ci tiene a rivolgersi al suo mondo per sfatare il «mito Battisti », creato apposta, scrive «per abbatterlo. «Questo si capisce e ha una logica feroce. Quello che non si capisce è il mito ripreso anche dai compagni, un buon mito da sventolare in nome della lotta rivoluzionaria. Poco importa che quel mito sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato, martire da agitare secondo i gusti da un lato o dall’altro della barricata».
Per questo, dunque, Battisti decide di parlare con il magistrato, «perché se non smitizzavo il mostro, se non dicevo che sono appena umano, allora sarebbe stato meglio se mi avessero scaraventato subito giù dall’aereo di Stato». «È una lettera molto franca — afferma l’avvocato Staccanella — nella quale Battisti spiega di non voler più essere un vessillo, tirato da una parte o dall’altra. Per il resto, nella sua deposizione non c’è stato alcun atteggiamento di delazione». E, in effetti, al procuratore di Milano l’ex terrorista ha parlato solo di se stesso, senza fornire indicazioni su chi, nel corso di 37 anni, abbia coperto la sua latitanza.
Nella lettera, allora, si concentra sugli ultimi 15 anni, dal febbraio 2004, quando venne arrestato in Francia, fino ad oggi: «Sono stati un inferno continuo, tra anni di carcere, arresti rocamboleschi, enorme dispendio di energia personale e di forze solidali».
Poi, prima dei saluti («Un abbraccio a chi lo vuole») promette un’appendice alla sua lettera: «Se incoraggiato, posso raccontare in seguito i retroscena di Ciampino», di quando fu accolto dai sorrisi a favore di telecamere dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Matteo Salvini e Alfonso Bonafede.