Michele Farina
Diceva: «Lo Zimbabwe è mio». E aveva ragione: per almeno 37 anni Robert Gabriel Mugabe è stato padre-padrone. Simbolo di liberazione. E poi tiranno. A mandarlo a casa (24 stanze, maggiordomi e immunità diplomatica) nel 2017 è stato il «suo» esercito con il «suo» braccio destro, quell’Emmerson Mnangagwa che mantiene fede al soprannome di Coccodrillo: «Lo Zimbabwe è in lutto fino a quando il nostro eroe nazionale non sarà sepolto», piange l’attuale presidente, che si era visto superato nella corsa alla leadership dalla moglie di Mugabe, Grace. Il familismo del «Compagno Bob» era un modo per restare in sella fino alla fine: «Solo Dio mi può licenziare». In Zimbabwe c’è un popolo in coda. Perle medicine, il pane, l’acqua. Molti si metteranno in fila anche per l’ultimo saluto all’unico leader che hanno conosciuto. Ma pochi verseranno lacrime, mentre MoscaePechino salutano «un grande uomo». Nella capitale Harare metà dei 4,5 milioni di abitanti quest’estate ha avuto l’acqua una volta alla settimana. Inflazione verso il 200%, blackout di 18 ore, mancano farmaci e carburante. La morbida uscita di scena di Mugabe non ha migliorato la vita di 13 milioni di persone. C’è chi lo rimpiange. E’ morto in una clinica di Singapore, dove si era recato spesso per curarsi da un male mai ufficialmente identificato. Aveva 95 anni, l’età di Nelson Mandela quando se ne andò nel 2013. Lo slalom parallelo dei due grandi vecchi è uno specchio dell’Africa. Mugabe figlio di un carpentiere, nell’ex Rhodesia del Nord governata dai bianchi. Il padre abbandona la famiglia quando ha 10 anni. Lui va a scuola dai missionari cattolici. Borsa di studio e la prima di sette lauree a Fort Hare, Sudafrica, dove qualche anno prima era passato Mandela. Insegna in Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) e in Ghana, dove conosce la prima Addio a Mugabe, l’anti-Mandela Eroe dell’indipendenza dello Zimbabwe, dittatore: è morto a 95 anni Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». E il suo popolo? In coda peril pane moglie Sally (che morirà di tumore nel 1992, quando lui ha già due figli dall’ex dattilografa poi ribattezzata Gucci Grace). Nel 1960 torna in patria, entra nella formazione guidata da Joshua Nkomo. L’opposizione alregime di Ian Smith si divide per linee etniche, Mugabe con gli shona, Nkomo con gli Ndebele (18%). Gli arresti del 1964 li riuniscono: Bob in cella per 11 anni, dopo a v e r chiamat o «cowboys» i governanti. Muore a 3 anni il primo figlio, e gli proibiscono di andare al funerale. Accadrà anche a Mandela. Dietro le sbarre, entrambi macinano dolore e immaginano il futuro. Mugabe esce nel 1975, è uno dei capi della guerriglia che porta all’indipendenza nel 1980. Da primo ministro si presenta come conciliatore. Ma gli scontri coniseguaci di Nkomo faranno 20 mila morti. Nel 1987 si fa nominare presidente. Presto gli farà ombra la stella di Nelson. Mandela ha un’altra forza, un’altra levità. Mugabe, che voleva fare dei suoi concittadini dei «gentlemen» insegnandogli il cricket, per recuperare le simpatie dei neri perseguita gli agricoltori bianchi. Mandela, dopo un solo mandato, se ne va dileggiando il Compagno Bob («Ritirati, vent’anni al potere sono abbastanza»). La confisca delle fattorie contribuisce al disastro economico. Dopo la disuguaglianza (i bianchi con il 2% avevano il 50% delle terre), arriva la fame. La repressione degli oppositori tra 2008 e 2009 vede Mugabe al comando e il Coccodrillo in regia. La coabitazione forzata con l’Mdc di Morgan Tsvangirai delude. Il Paese a terra, lui in sella. Verrà detronizzato dai suoi, affinché niente cambi davvero. A guardare oltre il Limpopo, in Sudafrica, disoccupazione e xenofobia galoppante, anche Mandela non sarebbe felice. The long walk to freedom, il lungo cammino verso la libertà, sembra non finire mai.