Michele Masneri

C’ è il momento Wolf of Wall Street, con le feste aziendali organizzate con donnine e alcol in località non riflessive – Miami, Las Vegas – e le avvertenze del capo: multa di duecento dollari a chi distrugge la stanza d’albergo; e Beyoncé che canta per i dipendenti, quando si raggiunge il primo miliardo di fatturato; c’è il momento gangster, quando si va a convincere il sindaco di Portland, Oregon, che non vuole Uber in città, ma le trattative vanno male, il sindaco sparge per la città ispettori pronti a multare gli eventuali Uber in circolazione, ma “non sa con chi ha a che fare”, perché Uber ha un software in grado di riconoscere i “nemici” (po – liziotti, ispettori, autorità locali) e gli annulla le chiamate; c’è il momento dell’il – luminazione, quando tutto ancora deve avere inizio e il cofondatore non riesce a trovare uno di quei fetidi taxi gialli che lo riaccompagni a casa la sera, a San Francisco, e si mette in testa l’idea di una app con cui prenotare una macchina che ti venga a prendere e che paghi direttamente dal telefono, senza tirare fuori i soldi, dopo aver visto al cinema 007-Casino Royale in cui Daniel Craig ha un antiquato telefonino su cui però sfarfalla un gps che visualizza la posizione della sua propria macchina. Finalmente è uscito il romanzo di Uber, si chiama “Superpumped”, appena pubblicato negli Stati Uniti, opera del giornalista tecnologico del New York Times Mike Isaac. Il librone arriva dopo l’abbastanza fallimentare collocamento in Borsa di Uber, fondata dieci anni fa a San Francisco, nata come servizio alternativo di prenotazione di limousine (“uberCab”, qualcosa come suprema categoria taxistica), e oggi principale mezzo di trasporto nelle metropoli evolute. Arriva nel momento di massima paranoia per ciò che la Silicon Valley rappresenta e in una fase pure di bilanci: in Borsa Uber appunto va male, si aspettano i collocamenti di Airbnb e di Wework (coworking) per capire lo stato di salute di queste celebrate imprese e in generale del settore tecnologico. Ma intanto il morale e lo sguardo è cambiato: solo cinque anni fa Mark Zuckerberg percorreva il paese in lungo e in largo lasciando balenare ipotesi di una possibile candidatura alla Casa Bianca: oggi tra furti di dati e carotaggi di privacy lo vanno a prendere coi forconi se mette il naso fuori di casa. La narrativa sulla Valle cambia repentinamente anche grazie a tutta una letteratura sempre più cospicua: Shoshana Zuboff, la professoressa di Harvard che ha pubblicato “The Age of Surveillance Capitalism”, teorizza e depreca il capitalismo di sorveglianza, quel sistema per cui noi cerchiamo meglio grazie a Google e a tutte le altre diavolerie, e in cambio le diavolerie cercano noi. E’ ispirata da Tim Wu, giurista della Columbia, che col suo libro “The Attention Merchants” ha teorizzato la trasformazione dei nostri dati personali in commodity. E poi c’è Roger McNamee, già finanziatore del giovane Zuckerberg, autore di “Zucked. Come aprire gli occhi sulla catastrofe Facebook”, in cui dice tutto il male possibile dell’azienda californiana, e per estensione sulla Silicon Valley: “La cultura della Valle sta cambiando, passando dal libertarianismo hippy di Steve Jobs a un’altra cosa: costruire monopoli, fare disruption e dominare”, scrive McNamee. “Non gliene frega più niente delle regole”. Adesso il libro su Uber: simbolo perfetto del male, che qualche tempo fa sembrava bene: ha violato più regole di tutti, di sicuro ha coventrizzato il settore più regolamentato del mondo (i taxi), creando nuovi stili di vita imprescindibili – a San Francisco i taxi ormai sono scomparsi, e i tram sono fitting room per senzatetto. Al centro c’è lui, il fondatore protagonista, Travis Kalanick, quarantatreenne burino fin dal nome, accusato di tutto, colpevole probabilmente di niente se non di essere appunto un burino che a un certo punto perde un po’ la brocca (ma chi non, con una società che passa da zero a 76 miliardi di dollari di valore – mentre qui ci si preoccupa per i vincitori del superenalotto rustico da duecento milioni). Per lui la vita vuol dire essere sempre “superpumped”, cioè carichi. Animato da bestiale spirito di rivalsa, mentre l’azienda cresce a dismisura gode a torturare gli investitori, cui fa sborsare cifre assurde per aver l’ono – re di entrare nella sua compagnia (a un certo punto Google Ventures, il braccio finanziario di Google, vuole investire in Uber. Lui li fa attendere, poi gli fa tirar fuori 250 milioni di dollari, e come segno di resa pretende anche una colazione col mitologico fondatore di Google Larry Page. Kalanick si prepara per andare al meeting, chiama un Uber, ma a un certo punto arriva un’auto senza guidatore. Google gli ha mandato un prototipo di auto senza conducente a prenderlo: per fargli capire un po’ chi comanda. E lui lì va fuori di testa). Uber – che forse dovrebbe cambiare ragione sociale in ubris – non ha peraltro mai fatto niente per sembrare ciò che non è: ha incarnato gli spiriti animali della Valle – giovani startuppari brufolosi scappati di casa che da un giorno all’altro si ritrovano pil da media potenza; e magari avranno maltrattato le femmine e di sicuro non saranno stati inclusivi: ma la startup non è un pranzo di gala. Finché a un certo punto tutto è andato in vacca: l’anno horribilis – da cui ancora non si è ripresa – è il 2017, quando succede qualunque cosa: il movimento #deleteuber che porta in pochi mesi 500.000 clienti a disinstallare la app (perché quando Trump appena eletto lancia il suo primo “ban” contro gli immigrati, i tassisti d’America vanno in sciopero, Uber invece non si sa se apposta o per goffaggine alza le tariffe e viene accusata di sciacallaggio); la dipendente ingegnera Susan Fowler che accusa l’azienda di maschilismo, e di coprire casi di molestie, si dimette, e fa nascere il #metoo (che, alcuni ricorderanno, nasce prima a Uber, e poi a Hollywood). Le mail vanziniane di Kalanick ai dipendenti per un raduno aziendale a Miami; il video di Kalanick stesso che a Los Angeles imbruttisce a un autista (anche a ragione, forse), che gli dice che a causa sua (di Kalanick) ha perso centomila dollari, perché l’azienda ha rivisto le tariffe (Kalanick sta tornando da una festa, è con delle tipe, e invece di mandarlo a quel paese gli dice solo qualcosa come “fatti una vita”, e “smet – tila di scaricare sugli altri le tue responsabilità”, ma è chiaro che ormai la compagnia è sotto schiaffo). Solo dopo arriverà un board infarcito di donne, Arianna Huffington come garante-badante con la stampa e con le femmine, professionisti della comunicazione come David Plouffe, ex stratega di Obama, e un amministratore delegato che sostituisce Kalanick, ma sarà troppo tardi. E’ infatti soprattutto un disastro di comunicazione, Uber, prima ancora che di modello di business. Certo nonostante sia stata valutata fantastilioni accumula perdite sempre più bestiali, 5 miliardi nell’ultimo trimestre, e ora ci si chiede se proprio questo modello – l’idea di pagare qualcuno che con la sua macchina ti scorrazzi da una parte all’altra della città – sia vagamente sostenibile, a meno di cambiare due pezzi dell’equazione, o pagare meno gli autisti, o alzare i prezzi per i clienti. In entrambi i casi si andrebbe fuori mercato; certo ci si è messa di mezzo pure la tecnica, l’unica certezza rimasta in Silicon Valley, per cui si credeva che l’arrivo rapido dell’auto senza conducente avrebbe finalmente risolto il problema. Ma – a parte i prototipi –ci si è accorti che non se ne parlerà realisticamente prima di una ventina d’anni. Il fatto è che la maggior parte delle aziende della Silicon Valley hanno i conti in rosso; però devono avere una bella storia alle spalle e tutti si è disposti a crederci; “è la storia che fa i numeri, non il contrario”, scrive Isaac. Il problema di Uber è che ha solo storiacce: nel libro c’è il racconto di una cena organizzata a New York per ingraziarsi la stampa, e uno dei top manager non trova di meglio che parlare tutta la sera di una giornalista nemica, e si vanta che si potrebbe indagare sulle sue attività sessuali per screditarla (il resoconto della cena finisce poi naturalmente tutto sui giornali). Così adesso, mentre il mondo reale si prende un po’ la rivincita contro la bolla siliconvallica, Uber è il capro espiatorio perfetto. Negli ultimi mesi ha licenziato 400 dipendenti, un terzo. E però chissà se finirà davvero, il romanzo di Uber – magari comprata da Google, l’incubo ricorrente di Kalanick – oppu – re da un concorrente come Lyft, altra aziendona sanfranciscana di identici servizi , che Uber ha copiato, ma che con astuta mossa padronale ha donato gran soldi alle associazioni anti-Trump, dunque eccitando le masse riflessive e approfittando della goffa politica uberista, si è posizionata come concorrente “di sinistra” anche se tra i suoi azionisti ci sono efferati trumpiani tra cui Carl Icahn, leggendario speculatore e candidato da Trump al ministero del Tesoro. Ma se finirà, la storia di Uber, finirà anche una delle figure più notevoli emersa nella Silicon Valley. Dopo la fase esplorativa delle limousine, il vero potenziale di Uber è stato Uber X, cioè privati cittadini che ti scorrazzano sulla loro auto a prezzi molto bassi. E’ un mondo: ogni uberista non lo fa come primo lavoro, ma ti scorrazza per inseguire un suo progetto. C’è l’aspirante attore, l’importatore di acque minerali, l’ar – chitetto che conosce Brescia (vi aveva una morosa); guadagnano tutti bene, anche 4 mila dollari al mese, non sono proletarizzati, spesso sono “sans papiers” che possono fare solo questo lavoro. E‘ una grande occasione di reinserimento (i controlli sulle fedine penali sono formali). L’uberista vi racconta le loro storie, apologhi di integrazione e sogno americano, e non ce l’ha affatto con la compagnia, anzi. L’uberista semmai teme molto l’arri – vo dell’auto autonoma, e si capisce, perché l’uberista è amabile, vi dà la bottiglietta d’acqua e il cavetto del telefono, ma non ha la minima idea di dove si trova. Provate a chiedergli, che quartiere è questo, dov’è la stazione, siamo a North Beach o a Castro? Non lo sa. L’uberista infatti viene da fuori città, specialmente nel weekend, fa la giornata e poi torna a casa, nei suoi sobborghi. Non si cura della geografia perché tanto ha il gps. Le rare volte che il segnale salta, egli è perduto. L’uberista è insomma un mero giratore di volante e pigiatore di pedali, e conversatore affabile; è un fragile ultimo miglio tra il gps e la meccanica automobilistica. Dunque la sua sostituzione con un robot sarà innocua e veloce. L’uberista sfoga la sua frustrazione giudicandoti. “Tu quanto hai?” è stato il tormentone a un certo punto a San Francisco e non si riferiva a un’epide – mia di febbre. Da qualche giorno Uber aveva reso pubblici i nostri rating. Di noi utenti. Come impone l’etica e l’eti – chetta della sharing economy (che è soprattutto una rating economy), tutti valutano tutti. Finora l’unica piattaforma che prevedesse il rating reciproco era Airbnb. Adesso però arriva Uber che ci sbatte in faccia il nostro punteggio. Anche qui, gli autisti da sempre mettevano le stelle ai trasportati, ma noi non lo volevamo sapere. E’ uno choc. Noi, che si era sempre pensato d’essere clienti modello, apprendiamo di avere non cinque stelle ma 4,7. Subito il pensiero corre: chi sarà quell’infame uberista che mi ha messo 4 stelle o addirittura 3 abbassando la media? Sarà certamente a Los Angeles, quando l’indiano continuava a venire all’indirizzo sbagliato e noi lo si è trattato un po’ freddamente (quando ci ha pure detto “you are drunk!”, con accento tipo Apu dei Simpson, e non lo si era; o forse quando si è chiesto molto civilmente a un altro perché, avendoci avvistati, non ci venisse incontro sotto la pioggia? (l’uberista arriva all’indirizzo prefissato, pigia il pulsante delle 4 frecce e poi non si muove neanche in caso di catastrofe nucleare). Si cercano su Google i cahiers de doléances uberisti. Al primo posto nel non gradimento c’è lo sbattere di portiera. Poi, l’inzaccherare il tappetino con le scarpe infangate. E poi, il più ambiguo e inquietante: il cliente che non fa conversazione. “Trattalo come un amico. Staresti muto tutto il tempo se fosse un amico che guida?” scrive un sito di bon ton uberistico. Anche sedersi dietro è considerato classista. Loro non si considerano tassisti. Qui, dunque, atroci dubbi: certo, si è stati zitti, a volte. Certo, ci si siede dietro. Come riparare, adesso? Un basso punteggio nuoce su vari fronti: intanto, se avete un punteggio basso vi manderanno autisti con un punteggio basso (e se si scende sotto 4,5 non ve ne manderanno proprio più). C’è chi la prende con filosofia. “Alla fine suona un po’ fal – so, è vero, però sai, ho 4,6, devo rialzare il punteggio, dopo un po’ ti abitui, e in fondo siamo tutti più contenti a essere più gentili”, mi dice un amico californiano saggio quando una sera torniamo da una cena e lo vedo nervosissimo perché non troviamo l’ascensore e lui corre giù ed è disperato, e quando finalmente trova l’uberista si genuflette: “scusi tanto il ritardo, se non siamo scesi subito ma sa, cercavamo l’ascensore! Questi palazzi moderni! Mi dispiace veramente” (il non farsi trovare immediatamente al punto convenuto è un altro tema di abbassamento di punteggio). L’uberista ha un ghigno di soddisfazione nello specchietto o è solo un riflesso? Comunque, ormai, una vitaccia. Ci si guarda ossessivamente le scarpe, saranno mica infangate? Si chiude dolcissimamente la portiera (ma se troppo piano rimane aperta, conterà anche questo nel punteggio?). Intanto, leggende metropolitane: qualcuno sussurra l’impronunciabile: che vi sia una segreta legge del 5×5. Allungare un cinque dollari per assicurarsi le cinque stelle. E però, talvolta, stremati: aridatece il tassinaro becero e analogico, con cui possiamo, ricambiati, comportarci malissimo. O stare zitti senza essere giudicati. E lui a volte sa addirittura la strada, senza bisogno di gps.