Michele Valensise

Vladimir Putin entra con scaltrezza nella crisi provocata dal massiccio attacco turco di cinque giorni fa contro i curdi nel nord-est della Siria. Mosca chiede il ritiro di tutte le truppe straniere presenti «illegalmente» sul territorio siriano, spingendosi a prospettare il rientro delle stesse truppe russe se questa fosse la volontà di Damasco. Il Cremlino si inserisce così tra le pieghe del disorientamento di europei, Stati Uniti e Nato dinanzi alla sfacciata iniziativa militare di Erdogan. Mentre l’aviazione di Ankara martella le postazioni curde e i blindati turchi occupano le città di Suluk e Tel Abyad, e l’Onu lancia l’allarme per i centotrentamila sfollati che già si contano dall’inizio dell’offensiva, a Washington si valutano possibili leve per fermare le operazioni in corso. Sono allo studio anche sanzioni contro la Turchia, singolari nei confronti di un Paese alleato, sorvolando sulla luce verde che proprio Trump ha di fatto dato all’offensiva militare con il repentino annuncio e l’attuazione del ripiegamento delle forze Usa dal terreno. Gli europei considerano ancora in ordine sparso la sospensione delle forniture militari al governo turco e tentennano, salvo un’auspicabile svolta oggi a Lussemburgo, nell’assumere una posizione coesa e decisa di censura. Ennesima prova della difficoltà per Bruxelles di decidere all’unanimità, un vincolo che condanna troppo spesso l’Ue alla paralisi o a un insignificante minimo comune denominatore. Ma anche il versante Nato potrebbe essere interessato a soppesare con cura il gioco di Mosca in questa fase. Affiorerà verosimilmente la diffidenza di fondo dell’Alleanza atlantica verso le proposte del Cremlino. Forse si terrà conto del fatto che la richiesta di Putin potrebbe sottintendere persino una sottile volontà di Mosca di favorire una via d’uscita per Erdogan, togliendogli le castagne dal fuoco in cui è precipitato tra le condanne unanimi, dall’Ue agli Usa, dalla Russia alla Lega araba e fino all’Iran. Anche se allo stato attuale, nonostante l’isolamento internazionale, il Sultano non pensa di fermare la sua azione. La Siria per la Nato è una regione «fuori area», esterna al raggio di eventuali mandati operativi. Eppure sono chiare le ragioni, già ampiamente illustrate, per cui l’offensiva nel nord-est della Siria rischia di ledere interessi fondamentali dei Paesi membri europei dell’Alleanza. Nessuno di loro, né tanto meno l’Italia, può sottovalutare il rischio di un’ulteriore destabilizzazione della regione e di un afflusso indiscriminato in Europa di nuove ondate di profughi. Altrettanto evidente è l’interesse primario a evitare la messa in libertà di migliaia di foreign fighters, sinora detenuti dai curdi e pronti a rientrare in Europa con intenti non certo meditativi. Stiamo parlando, sulla base di stime accurate, di diciassettemila combattenti, e il numero sale a trentamila se si aggiungono i familiari: dati allarmanti per la nostra sicurezza. Se per la Nato in quanto tale, condizionata dalla partecipazione della Turchia, alcuni limiti risultassero invalicabili – il segretario generale Stoltenberg ha comunque creato comprensibile imbarazzo con l’appello ad Ankara per un intervento proporzionato – i suoi membri, soprattutto europei, potrebbero avere maggiori margini per una scrupolosa verifica diplomatica delle effettive intenzioni di Mosca sul ritiro delle forze straniere dalla Siria e di possibili convergenze. E se c’è un prezzo da pagare per fermare le armi, garantire la sicurezza e forse dare anche una prospettiva a quel Paese martoriato da otto anni di guerra, sarebbe bene analizzarlo con attenzione e rapidità.