Monica Guerzoni & Lorenzo Salvia

«Caro, sull’evasione deve essere una rivoluzione, che deve cambiare i comportamenti dei cittadini…». Comincia così l’sms con cui Giuseppe Conte ha spronato il ministro dell’Economia e i tecnici del Mef a raschiare il fondo del barile e scovare i soldi necessari per chiudere in tempo la manovra. Tre miliardi di extragettito fiscale, saltati fuori all’ultimo minuto anche grazie all’asse tra il presidente del Consiglio e il dem Roberto Gualtieri. Per il premier la lotta all’evasione, oltre cento miliardi l’anno, è «la madre di tutte le battaglie». Una sfida che va affrontata «con coraggio», mettendo gli interessi degli elettori prima di quelli dei partiti. «I cittadini in giro per l’Italia mi chiedono una svolta — scrive Conte nel messaggio riservato — E se non dovesse venire perderò di credibilità e dovrò dire che le cose non si possono cambiare». È un avviso a chi frena per questioni elettorali, uno schiaffo a quella «classe politica che non ha il coraggio di affrontare la questione di petto». In un clima di forte tensione nella maggioranza, il presidente sente che il Pd e Leu sono dalla sua parte e scrive a nuora (Gualtieri), perché le suocere (Renzi e Di Maio) intendano. «Per il superbonus vanno previsti tre miliardi», è l’ultimatum di Conte, che ci mette la faccia come mai prima: «Mi assumo io la responsabilità di trovare poi le risorse l’anno prossimo se non dovessero tornarci dal recupero dell’evasione». E ancora, per scolpire la sua leadership: «Mi piacerebbe che tu fossi al mio fianco in questa battaglia, altrimenti mi assumerò anche da solo la responsabilità davanti al Paese». Alla fine i soldi sono saltati fuori. E Conte, determinato a passare alla storia come il premier che abbassò le tasse colpendo i grandi evasori, vuole appenderli al suo chiodo fisso: il superbonus che tanti cittadini si troveranno nella calza alla Befana per aver pagato con moneta elettronica ristoranti, bar, elettricisti, meccanici e via elencando. Il tema dell’evasione, e del carcere per chi viene condannato, segna un altro punto di attrito fra Conte e Di Maio. Se il premier aveva fatto trapelare qualche disagio per la «timidezza» del capo politico sui pagamenti elettronici, la replica è arrivata per vie traverse. Prima con la protesta dei 5 Stelle in commissione Finanze, «la lotta all’evasione si fa osteggiando i grandi evasori, non il piccolo commerciante». Poi con una durissima presa di posizione ufficiosa, trapelata dai vertici del Movimento: «La lotta all’evasione sia vera e non specchietto per le allodole per fare regali a banche e multinazionali». È un braccio di ferro su chi ha più peso nel governo. «Ho fatto valere il nostro 33% in Parlamento», ripete ai suoi il ministro degli Esteri, che sente di aver vinto la partita dei conti: «Quota 100 non si tocca, la tassa sulle sim non c’è, la flat tax per le partite Iva resta… Siamo quelli che mantengono le promesse». Ognuno esulta per sé. Quando Conte ha detto che la manovra «non è un campo dove piazzare bandierine di partito» ce l’aveva con Di Maio e soprattutto con Renzi. Irritato per gli strappi del fondatore di Italia viva, che avrebbe minacciato di non votare il decreto fiscale contro la decisione di abbassare il tetto al contante, il premier gli ha tirato le orecchie a distanza. La scelta di portare la soglia da tremila a mille euroèsolo la parte più visibile della «cura» che Palazzo Chigi sta somministrando al più recalcitrante degli alleati. In asse con il Pd e con l’appoggio di Dario Franceschini e Roberto Speranza, il premier lavora per placare le rivendicazioni di Renzi. Nessuna vendetta, assicurano, ma dietro le mosse che hanno portato alla quadratura del cerchio si intravede una strategia concordata. «Per tenerlo a bada quando alza troppo la testa basta colpirlo in uno dei provvedimenti simbolici del suo governo», spiega riservatamente un dem a margine del Consiglio dei ministri. Così è successo su Quota 100, che Renzi voleva abolire e che inveceèrimasta intatta. Tanto che, prima del Cdm, la ministra Teresa Bellanova commentava infastidita: «Sì che è una vendetta, ma senza noi renziani i numeri in Senato non ci sono».