Moris Gasparri

I Mondiali di atletica leggera appena iniziati in Qatar ci invitano a una riflessione all’in – dietro. Il mistero dello sport sta nel ritmo intermittente del suo apparire nel mondo greco, del suo consolidarsi per più di un millennio, del suo lunghissimo inabissarsi e infine del suo riapparire improvviso e planetario negli ultimi due secoli. Da questo punto di vista niente più dell’atletica leggera ha il compito del marcatempo. In queste emersioni e riemersioni è stata protagonista sempre. Se la parola “stadio” dal denominare una gara di corsa veloce come nell’antica Grecia è passata oggi a rappresentare l’edificio in cui si affollano gli sguardi della passione per lo sport egemone, ovvero il calcio, è perché li, in quell’assieparsi originario su degli spalti costruiti alla bisogna, è scoccata una scintilla: è dell’uomo che cerca di correre più velocemente di altri uomini la prima grande figurazione dello spettacolo sportivo nella civiltà europea, assieme all’uomo che cerca di lanciare più lontano gli strumenti antichi della caccia, o all’uomo che lotta con altri uomini attraverso la forza delle sue mani e del suo corpo. En passant, al Museo Archeologico Nazionale di Napoli è in corso una splendida mostra che ripercorre queste tracce classiche sempre degne di essere rivissute e ripensate. Per un caso che forse non è caso, la rinascita moderna dell’atletica è stata guidata nello sviluppo delle sue competizioni dai grandi imperi del mare, Inghilterra e Stati Uniti, eredi spirituali della talassocrazia ateniese. Questo spirito agonistico legato al correre e saltare è così forte negli States che ancora oggi i dati sulla pratica sportiva nelle high school vedono l’atletica leggera ai primi posti per partecipazione. Ma è stato il Novecento, preso nella sua interezza, il grande secolo della regina degli sport.

In primo luogo per la produzione di immaginario collettivo, di quei momenti che sembrano fermare il normale corso del mondo e delle cose per creare poi memorie condivise. Voltare lo sguardo all’indie – tro dà le vertigini. L’arrivo barcollante di Dorando Pietri, le vittorie e i record di Jesse Owens ed Emile Zatopek, i pugni guantati di Smith e Carlos, il salto rivoluzionario di Fosbury, il duello tra Gebre e Tergat… ogni appassionato potrebbe continuare in eterno a elencare stelle e campioni, producendo un rispecchiamento nel senso comune. Anche aspetti apparentemente laterali del costume e del linguaggio ci raccontano della potenza sportiva e culturale dell’atletica. Da dove nascono infatti i due grandi imperi globali dell’abbigliamento sportivo se non attorno a una pista, nella Berlino dei Giochi Olimpici del 1936 e più avanti nella costa ovest degli States? Chi precede le iconizzazioni eroiche delle grandi stelle afroamericane del basket Nba, oggi divenute un vero codice culturale globale, soprattutto a livello giovanile? Non era forse il basket d’Ol – treoceano inizialmente definito alle nostre latitudini come “atletica giocata”? Uno sport grande anche nelle sue nefandezze, capace nell’ultima parte del secolo di lasciarsi attraversare dal male diventando luogo di aberrazioni mediche e prigionie del sogno di vincere. La storia procede per trasformazioni, spostando e ricreando gerarchie, anche quella dello sport, che ormai ha una sua consistenza. L’atletica nell’èra dell’intrattenimen – to globale non sta più sul trono. È pressoché scomparsa dai palinsesti televisivi, perché oggi gli stessi vivono al ritmo di eventi quotidiani che solo pochi sport possono fornire, calcio in primis. Di riflesso la sua presenza sui social è evanescente, idem l’appeal nei confronti degli sponsor, soprattutto dopo il ritiro di Usain Bolt. La sua capacità di creare immaginario è ormai molto limitata, la corsa al record quasi esaurita nella sua funzione storica. È diventata nicchia da addetti ai lavori. Che impronta ha lasciato nel grande pubblico un campione assoluto come Van Niekerk, capace in questi anni di avvicinare la barriera dei 43 secondi nei 400 metri? Praticamente nessuna. È come se la teoria della fine della storia propugnata sul finire degli anni Novanta del secolo scorso da Francis Fukuyama fosse diventata spendibile non per le grandi vicende della politica, che l’hanno invece sonoramente smentita, bensì per quelle sportive dell’atletica leggera. C’è un elemento simbolico che racconta questa fine. Oggi la pista è l’elemento negativo per eccellenza che si frappone al godimento estetico di una partita di calcio. Per questo motivo esistono sempre meno stadi di grandi dimensioni riservati all’atletica. Anche per quelli olimpici una volta terminato l’evento la stessa pista viene occultata, come accaduto a Londra, e magari in futuro prenderà sempre più piede l’idea delle piste smontabili, come visto qualche anno fa in Scozia all’Hampden Park per i Giochi del Commonwealth. Ci sono poi due grandi cambiamenti intervenuti nel nuovo millennio da tenere in considerazione ai fini della nostra analisi. Da un lato gli effetti delle inchieste legate al doping. Il grande protagonista dell’atletica in questi ultimi anni assieme a Bolt non è stato un atleta, bensì un giornalista, il tedesco Hajo Seppelt, autore di numerose inchieste sull’utilizzo di sostanze dopanti, a partire da quella detonante del 2014 contro il sistema sportivo russo, che nemmeno a Doha potrà schierare ufficialmente i suoi atleti. Negli ultimi anni si è incrinata anche l’immagine delle due isole felici dell’ondata globalizzante che ha coinvolto l’atletica negli ultimi trent’anni, ovvero Jamaica e Kenya, fra i pochi luoghi al mondo in cui la corsa, veloce o di resistenza che sia, è ancora passione sociale e sogno aspirazionale di bambini e bambine, in un desiderio di fuga dalla povertà come solo il rap e il basket nei ghetti americani o il calcio in Sudamerica. Sempre più numerose le accuse, le inchieste e le squalifiche per casi accertati di doping. La stessa atletica italiana è da anni sui giornali quasi solo per il caso Schwazer, nei suoi infiniti strascichi giudiziari. La seconda riguarda il legame tra l’atletica di alto livello e la società. L’agonismo greco aveva una sola regola: l’importanza esclusiva del vincere. C’era però chi ne contestava i fondamenti già al tempo. Senofane ammoniva come le vittorie degli atleti in nulla partecipassero all’ac – crescimento della ricchezza materiale della polis, al contrario delle conoscenze tecniche e scientifiche. Oggi per la corsa non è più così. Nel boom contemporaneo del running va letta una rivincita dell’utile sull’inutile rappresentato dalle medaglie. La stragrande maggioranza dei runner corre per restare in salute, per sopravvivere meglio allo stress, per vivere meglio parchi e spazi delle nostre città. Soprattutto non corre perché ispirata dalle performance della ristretta élite di atleti professionisti. Il massimo dell’utili – tà anche per gli stati, alle prese con una sostenibilità dei sistemi sanitari sempre più incerta. C’è poi una grande trasformazione demografica collegata: oggi si comincia in prevalenza a correre nelle età mediane della vita, quando invece l’agonismo è da sempre legato alla gioventù biologica e rifugge ogni invecchiamento. Le forme partecipative in cui sempre più i runner si radunano assomigliano ormai ai concerti più che agli agoni classici. Cinque anni fa la copertina della maratona di New York andò alla tennista Caroline Wozniacki, che la corse in tre ore e ventisei minuti per finalità benefiche, non a chi aveva vinto. È tutto perduto? Le piste sono solo un resto archeologico? Non proprio. Anche se è impossibile restaurare interamente la grandezza perduta, la fine dell’atletica non va intesa in termini definitivi di scomparsa e cessazione. Come quelle stelle di cui possiamo continuare a vedere la luce anche dopo la loro morte, la possibilità di nuovi bagliori, nuovi entusiasmi e nuovi coinvolgimenti c’è ancora. Lo abbiamo visto in Italia con la scintilla generata dal “sub 10” di Filippo Tortu nei 100 metri, e basta soltanto pensarlo nei prossimi anni in lotta per una medaglia ai Mondiali o ai Giochi Olimpici per immaginare quanta elettricità potrebbe tornare in circolo. Certo, su questo pessimismo cosmico molto influisce la nostra latitudine. Un grande storico dell’eco – nomia scomparso da poco, Immanuel Wallerstein, aveva creato una classificazione del ruolo ricoperto dalle varie nazioni nel sistema economico mondiale, dividendole in centrali, semiperiferiche e periferiche. È una distinzione che torna utile anche per analizzare il percorso storico dell’atletica italiana. Centrali nella fase di sviluppo iniziale e nella ripresa del Dopoguerra (Brera parlò della Fidal come di una “federazione santa”), poi protagonisti indiscussi nel ventennio d’oro tra anni Settanta e Novanta, con icone mondiali come Pietro Mennea e Sara Simeoni, ma anche per l’organizzazione scientifica degli allenamenti e le metodologie innovative. Semiperiferici nella prima decade del nuovo millennio, con qualche grande acuto: la cavalcata di Stefano Baldini ad Atene, l’urlo feroce di Andrew Howe secondo nel salto in lungo ai Mondiali di Osaka del 2007, o l’eleganza esplosiva di Antonietta Di Martino, che sarà a Doha per ricevere la sua terza medaglia mondiale, il bronzo dell’edizione 2009 riassegnato per la squalifica di Anna Chicherova. Totalmente periferici invece nel decennio che sta per concludersi, in cui andare alle grandi competizioni è stato un impegno a metà tra inerzia burocratica e gita turistica. Nell’ultimo periodo qualcosa si sta muovendo a livello di prestazioni, sia a livello giovanile che coi grandi. A Doha il gruppo azzurro ha una qualità media più alta che nel recente passato, e atleti come Luminosa Bogliolo o Yeman Crippa incarnano molto bene questo nuovo corso, perché stanno raggiungendo una continuità internazionale ragguardevole. L’atletica italiana è ancora fatta della vitalità di società storiche, dei tanti centri di provincia dove nonostante il declino mediatico si continua ancora ad andare al campo di pomeriggio e a provare la magia di correre più veloce degli altri, saltare più in lungo, o più in alto, della passione smisurata di tanti allenatori (che però, va detto, non ha ancora conosciuto quel salto professionale fatto invece dal nuoto). Perché c’è una cosa che la scomparsa dai palinsesti non può togliere. La pienezza educativa che regala la sua pratica, ovvero quella dimensione del migliorare solo sulla base di sacrifici legati a obiettivi, mai per caso o fortuna, mai per l’aiuto di altri, mai per l’er – rore di altri, con l’aiuto tecnologico poco o punto influente nella maggior parte delle tante specialità di cui si compone. La responsabilità integrale di fare le cose da soli, col tempo e gli avversari che ti misurano a ogni passo. L’atletica è finita, lunga vita all’atletica.