Tutto è “storico”, nelle cronache epifaniche del populismo italiano. Il Reddito di Cittadinanza, che ha generato «il nuovo Welfare ispirato ai valori di san Francesco». L’abolizione dei vitalizi, «primo atto della Terza Repubblica». Il decreto dignità, che ha sancito la «Waterloo del precariato». Il vecchio Def 2018, che ha «abolito la povertà». Il quarto e definitivo via libera alla legge sul taglio dei 345 parlamentari non poteva fare eccezione. «Giornata storica», grida infatti Luigi Di Maio nel grottesco Truman Show in piazza Montecitorio. Forbicioni di carta alla mano, il leader improvvisa una scenetta da b-movie, tagliando finte poltrone. Scomoda il Neil Armstrong dello sbarco sulla luna, dicendo «questo è un piccolo passo per il Parlamento ma un grande passo per l’Italia».
Si conferma così, ancora una volta, quello che Churchill diceva dei Balcani: questa piccola Italia, tra le spiagge di Milano Marittima e i balconi dei palazzi romani, produce più Storia di quanta ne può consumare. Ma stavolta il capo politico del Movimento ha tutto il diritto di esultare. Di questa riforma costituzionale è il padre legittimo. I Cinque Stelle sognavano dai tempi di Gianroberto Casaleggio questa tappa intermedia verso il mitico regno di Gaia, finalmente dominato dalla dittatura della Rete e liberato dai vecchi legacci del parlamentarismo. L’hanno ingiunta alla Lega, nei quattordici mesi di governo giallo-verde. E adesso l’hanno imposta al Pd, come condizione irrinunciabile per la nascita del governo giallorosso. Dunque, si può anche ironizzare sulle solite farneticazioni demagogiche dei pentastellati, passati in dieci anni dall’Utopia al Palazzo. Ma al fondo c’è una coerenza, in questo colpo di scure sugli eletti del popolo. C’è un riflesso dell’antico Vaffa, nell’esultanza dei parlamentari che come i tacchini a Natale festeggiano la loro prossima eutanasia. C’è l’eco delle parole di Grillo, che due anni fa ripeteva «vogliamo la disintermediazione tra Stato e cittadini, l’eliminazione dei partiti, il cittadino al potere». C’è un filo rosso, insomma, che tiene insieme oggi il taglio dei parlamentari, domani i referendum approvativi e magari anche il vincolo di mandato. È il miraggio della democrazia diretta “ultimo idolo pagano”, come l’ha definita ieri Ezio Mauro. Un’evoluzione darwiniana al contrario, che trasforma i parlamentari in “avvocati” come nell’Ancien Régime. E che si inquadra nella logica del “Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno”, ancora radicata nei grillini che in quella scatoletta ormai ci sguazzano da anni. Ma per il Pd, invece? Cos’è questa riforma, per il Pd che vota un sì oggi dopo aver votato tre volte no nei mesi scorsi? Un montaliano Delrio, in aula, può dire solo cosa “non è”: «Non è una legge populista, non è una cambiale in bianco…». Lo sforzo è eroico, ma non raggiunge lo scopo. Di per sé non c’è nulla di scandaloso o di sbagliato nel ridurre il numero dei parlamentari, in un Paese che ne conta 945 (contro i 615 della Spagna, i 650 della Camera dei comuni della Gran Bretagna, i 778 della Germania). Ma questa è una pseudo-riforma: senza un ridisegno complessivo del sistema costituzionale e istituzionale, resta esattamente l’opposto di quello che sostiene Delrio. È una televendita populista, perché è spacciata come una purga contro la Casta che “fa risparmiare un miliardo ai cittadini” (mentre secondo Carlo Cottarelli siamo allo 0,007% della spesa pubblica totale). Ed è una cambiale in bianco, perché le altre “norme di bilanciamento” (dal riordino dei collegi alla rimodulazione dei quorum, dall’introduzione della sfiducia costruttiva alla legge elettorale) sono affidate a una dichiarazione d’intenti che vale come una bicchierata tra quattro amici al bar. Ma non siamo anime belle. Sappiamo bene che questo sì era implicito nel patto di governo sottoscritto da Zingaretti. Sappiamo bene che in questa fusione fredda con M5S il Partito democratico resta il “soggetto debole”, tanto più adesso che Renzi si è ritirato sulla Rocca di Scandicci a fare il Ghino di Tacco 4.0, l’Ego della bilancia con la sua Italia Viva. Quindi c’è poco da piangere sul voto versato. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Per gli apocalittici è “realpolitik”. Per gli integrati è “responsabilità”. Comunque la si chiami, è il prezzo del biglietto che la sinistra paga per essere rientrata nella stanza dei bottoni senza passare per le urne. Ma ora una riflessione va fatta, e un vecchio saggio come Emanuele Macaluso la sbatte in faccia al Pd: vi state calando le braghe. Troppo ruvido? Può darsi. Ma la domanda rimane: Quanto si può e si deve sacrificare dei propri valori e dei propri programmi, sull’altare del governismo? I segni di discontinuità non mancano. Sui rapporti con l’Europa, sugli equilibri di bilancio, sulla concertazione con le parti sociali. Ma mentre Conte fa il duro scimmiottando il Craxi di Sigonella, Di Maio fa il suo spot circense davanti alla Camera, Salvini cerca un altro Papeete e Renzi rispolvera un’altra Leopolda, Zingaretti balbetta su troppi temi e la sinistra arretra su troppi fronti. M5S taglia le poltrone, e su questo farà una facile compagna elettorale al referendum confermativo: qual è il progetto alternativo di riforma costituzionale e di legge elettorale che il Pd vuole opporgli? M5S annuncia un piano-fantasma sul rimpatrio dei migranti: perché il Pd non si batte per una legge buona e giusta come lo ius culturae? M5S, con il supporto dell’irresponsabile filibustering renziano, combatte contro le tasse e boccia gli interventi sul contante: su quali misure di equità sociale e creazione di ricchezza punta la manovra immaginata dal Pd? M5S fa quadrato sulla sua riforma della giustizia, confermando le norme su prescrizione, durata dei processi e Csm: esiste forse su questo una contro-riforma elaborata dal Pd? L’unica strategia visibile sembra la “politica dei due tempi”. Oggi pago pegno, cedendo alle ubbie dell’alleato grillino o inseguendo le follie del nemico leghista. Domani passo all’incasso, portando a casa le leggi che mi stanno a cuore. È una scommessa che non ha mai funzionato. Nessuno sa se questo governo ha un domani. E soprattutto nessuno sa cosa stia veramente a cuore a questa sinistra, ancora senza pace e senza anima.