Nicola Lupo
Beppe Grillo ci ha abituati a provocazioni assai forti, a cavallo tra il suo mestiere originario di comico e la sua veste attuale di ispiratore e fondatore della forza politica che è parte numericamente dominante delle maggioranze di governo, sin dall’inizio di questa legislatura. La provocazione di venerdì scorso – che riprende esplicitamente l’ipotesi, prospettata nel 1999 nel dibattito scientifico da uno degli ideatori del reddito universale, il filosofo Philippe van Parijs, di negare ai più anziani il diritto di voto – rientra appieno tra queste. È evidente che l’introduzione di una previsione siffatta contrasterebbe con la Costituzione, configurando un classico caso di discriminazione sulla base dell’età, e, ancor prima, con i più elementari princìpi democratici (articoli 1, 3 e 48 Cost.). Tant’è che, diversamente da quel che accade per il reddito di cittadinanza, in cui com’è noto era l’Italia a fare eccezione, non vi è nessuno Stato al mondo che adotta una misura siffatta. Tuttavia, il timing e la direzione di fondo della provocazione meritano di essere attentamente considerati. Il momento in cui il post grillino è stato pubblicato è tutt’altro che casuale. Siamo all’indomani dell’approvazione del Documento programmatico di bilancio (Dpb) da parte del governo, cui per la prima volta si è accompagnata l’approvazione, “salvo intese”, del disegno di legge di bilancio e del decretolegge fiscale. E perciò all’inizio di una sessione parlamentare di bilancio che si presenta con parecchie incognite politiche e procedurali, anche a causa di una maggioranza composta da quattro forze politiche, anziché da due, nella quale si compiono, come al solito, scelte che hanno importanti riflessi anche in termini di equità intergenerazionale. E, soprattutto, mercoledì 23 ottobre prenderà avvio, presso la commissione Affari costituzionali del Senato, quella che si profila come la letturachiave del progetto di legge costituzionale, già approvato dalla Camera, volto a modificare l’art. 58, primo comma, Cost., al fine di abbassare dai 25 ai 18 anni la soglia d’età per votare al Senato. Si tratta di un emendamento costituzionale che porrebbe finalmente rimedio a una differenziazione negli elettorati dei due rami del Parlamento che era pari a 4 anni quando la Costituzione entrò in vigore e che si è quasi raddoppiata a seguito dell’abbassamento a 18 anni della maggiore età, che ha avuto luogo, con legge ordinaria, nel 1975. Una differenza nel diritto di voto di questa entità non esiste in nessuna democrazia al mondo. L’emendamento costituzionale, già necessario da tempo, è divenuto indifferibile dopo la conferma del bicameralismo paritario che ha fatto seguito al fallimento della riforma Renzi-Boschi: al momento attuale, i cittadini tra i 18 e i 24 anni pesano, quanto al loro diritto di voto, la metà degli altri. Anche qui, dunque, una deroga al principio di eguaglianza del voto, nella forma di “una testa, un voto”: prevista da una norma costituzionale, e quindi non in sé illegittima, ma non per questo meno insopportabile, in nome dei princìpi democratici, di quanto non sarebbe, per riprendere lo spunto offerto da Grillo, non far votare per la Camera, che so, gli ultra-settantacinquenni o gli ultra-ottantenni. A maggior ragione, visto che questo “mezzo voto” è oggi attribuito proprio a quei cittadini che sono titolari di interessi meno contingenti. Come spesso accade in Italia, proprio nel momento in cui questo emendamento costituzionale sta per essere approvato, le spinte massimaliste ritrovano vigore: con l’effetto di frapporre ulteriori ostacoli all’emendamento in itinere. In questa chiave, ad esempio, si è riacceso il dibattito sul voto ai sedicenni (nell’ambito dell’Unione europea, al momento previsto, a livello nazionale, solo in Austria e a Malta). E si ipotizza di caricare su quel progetto di legge costituzionale, a oggi composto di un solo articolo, ulteriori interventi di revisione costituzionale. Non solo, come è più che comprensibile, un abbassamento a 25 anni, al pari della Camera, dell’elettorato passivo (un’opzione che la Camera ha espressamente deciso di lasciare al Senato, un po’ per cortesia istituzionale, un po’ perché le posizioni apparivano tutt’altro che univoche), ma anche altri contenuti, più controversi: tra cui quelli indicati nell’accordo di maggioranza, come la cancellazione del riferimento dell’elezione “a base regionale” del Senato e la riduzione da 3 a 2 dei delegati di ciascuna Regione chiamati, assieme a deputati e senatori, a eleggere il Presidente della Repubblica. Una misura, quest’ultima, apparentemente coerente con la riduzione (del 35%) di deputati e senatori, ma che invero discutibile: sia perché il peso delle Regioni in Parlamento andrebbe accresciuto, e non ridotto; sia perché con due delegati per regione diventerebbe impossibile assicurare, al contempo, la presenza dell’opposizione e il diritto della maggioranza di ciascun Consiglio regionale a esprimere più di un delegato. E non va dimenticato che si tratterebbe comunque di una misura operante solo dalla prossima legislatura (in ipotesi, perciò, dall’elezione presidenziale “in calendario” nel 2029). Anche la direzione di fondo del post grillino merita qualche riflessione. Da un lato, è innegabile che, a causa dell’invecchiamento della popolazione, l’età dell’elettore mediano risulta essere in costante crescita. Dall’altro, è noto che uno dei problemi, forse il principale, della politica contemporanea, e anche di quella italiana, consiste appunto nel sistematico prevalere di una logica tutta contingente e di breve periodo. Da ciò l’esigenza di immaginare una serie di meccanismi, anche procedurali, che incentivino comportamenti più lungimiranti del legislatore. Nel Parlamento finlandese, per esempio, opera dal 1993 una “Commissione per il futuro”, che qualche frutto sembra aver prodotto. Anche in Italia qualcosa del genere si può sicuramente immaginare, a salvaguardia, in concreto, del valore costituzionale della sostenibilità: un valore che dal 2012 espressamente presente, seppure con esclusivo riferimento al debito pubblico, nella carta fondamentale (artt. 81 e 97). E che la Corte costituzionale ha giustamente iniziato a proteggere, evitando ad esempio la diluizione in 30 anni dei debiti assunti dagli enti locali (sentenza n. 18 del 2019). Con l’obiettivo di considerare sistematicamente i problemi di equità intergenerazionale, senza bisogno di intaccare i diritti di voto di tutti i cittadini.
Nicola Lupo è il Direttore del Centro di studi sul Parlamento