Paolo Franchi

Se ne è andato, a novant’anni, Guido Carandini. Chi spara a zero sulle élite, di cui Guido è stato sicuramente parte, farebbe bene a riflettere un po’ sulla sua vita. Sua madre era Elena Albertini, nipote di Giuseppe Giacosa, figlia di Luigi, senatore, antifascista, direttore e socio del «Corriere» che, estromesso per volere di Benito Mussolini dalla proprietà del giornale, con la lauta buonuscita acquistò, alla metà degli anni Venti, il grande possedimento di Torrimpietra, alle porte di Roma. Suo padre, Nicolò, se possibile ancora più elegante di lui nel trattoenel portamento, prima bonificò con il cognato Leonardo la tenuta, poi ne fece un allevamento modello. Ma sempre portandosi appresso una grande passione intellettuale e politica. Nicolò Carandini fece parte, per i liberali, del Cln di Roma, poi fu ministro nel secondo governo Bonomi, artefice principale dell’accordo De Gasperi-Gruber sull’Alto Adige, leader dei liberali di sinistra, fondatore, con Bruno Villabruna, del Partito radicale e del Movimento federalista europeo, ambasciatore a Londra, e pure, per un decennio, presidente dell’Alitalia. Guido seguì le sue orme nella passione per l’azienda, di cui cominciò ad occuparsi in prima persona a 23 anni, ma anche nella passione per la politica. Solo che, a differenza della schiatta di liberali non tutti di sinistra da cui proveniva (il salotto di casa Carandini, a due passi dal Quirinale, era stato frequentato assiduamente da Benedetto Croce, Carlo Sforza, Alessandro Casati, Alberto Tarchiani, Mario Pannunzio; e vi si erano tenute le ultime riunioni di redazione del «Mondo», del quale Nicolò era stato assiduo collaboratore) fu marxista, prima ortodosso, poi sempre più critico, sì, ma sempre rifiutandosi di liquidare, con il Marx utopista, anche lo scienziato sociale, come spiegò dettagliatamente nel suo libro Un altro Marx, pubblicato da Laterza. E fu, a lungo, comunista (un comunista piuttosto di frontiera, e non troppo disciplinato), e per il Pci venne eletto deputato nel 1976 e nel 1979. Sul finire degli anni Ottanta, e soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, quello del cambiamento del nome e della natura stessa del Pci sarebbe diventato il tormentone per eccellenza della politica italiana. Ma, nel 1985, il tema, almeno ufficialmente, era ancora un tabù. Fu lui, Carandini, il primo a mettereipiedi nel piatto, in un articolo su «Repubblica». Aldo Schiavone aveva appena pubblicato per Laterza un libro molto critico, Per il nuovo Pci, che però non lo aveva proprio convinto: «Per il nuovo Pci? Ma non sarebbe invece ormai maturo il tempo di abbandonare, almeno in questa parte del mondo, lo stesso vocabolo “comunista”? (…) Per noi, nel bel mezzo di questa vecchia Europa, è un vocabolo ormai insensato, quanto lo è l’alchimia per descrivere il compito di far avanzare la chimica e la fisica nell’era atomica». Meglio, molto meglio, almeno per chi ambiva «a respirare un’aria diversa da quella che spira nel Pcienel Psi», chiedere «un congresso straordinario per decretare la fine dell’era eurocomunista», e dar vita, anche a costo di una scissione degli ortodossi, a un partito «veramente nuovo». Che a Carandini sarebbe piaciuto si chiamasse Partito democratico del lavoro. Nel distratto silenzio degli stati maggiori comunisti e socialisti, la cosa sarebbe finita lì, se a Giancarlo Pajetta non fosse saltata la mosca al naso. In una durissima intervista all’«Espresso», sostenne che non avrebbe avallato la chiusura del partito in cui militava da una vita, e per il quale era stato 12 anni in galera, per dar retta a un «proprietario fondiario», a un «padrone». E a Carandini, che gli aveva scritto piccato che l’uso stesso di questi termini era infondato scientificamente, perché in ogni epoca storica avevano assunto significati diversi, rispose più piccato ancora: era certo, Pajetta, che gli oppressi — fossero schiavi, servi della gleba, braccianti, operai salariati — i loro sfruttatori li avevano sempre chiamati così. Non aveva obiezioni sul fatto che non pochi dei loro discendenti, per una scelta anzitutto morale, militassero nel Pci. Ma, quanto a lui, poche chiacchiere: «Monotono, e con una cocciuta e non scientifica coerenza, con i padroni non sono stato mai».