Paolo Mieli

Non protesteremo mai abbastanza per i torti che ancora una volta il popolo curdo è costretto a subire. Ed è un bene che l’Europa vada avanti con le manifestazioni, le convocazioni di ambasciatori, qualche pur timida forma di ritorsione nei confronti della prepotenza turca. È una buona cosa, altresì, che si denunci a gran voce la responsabilità del presidente statunitense in ciò che sta avvenendo dalle parti di Rojava: se Donald Trump non avesse ritirato i suoi militari, quel che è accaduto e quel che di terribile potrebbe ancora accadere non sarebbe stato possibile. Ma stride che questa generosa, pressoché unanime partecipazione all’apprensione per la sorte dei curdi, si arresti all’improvviso di fronte a considerazioni più prosaiche circa l’opportunità di dare ancora soldi al regime di Ankara perché continui a «ospitare» i profughi siriani (al momento più di tre milioni e mezzo di esseri umani). Ed è forse improprio definire «ricatto» l’annuncio di Recep Tayyip Erdogan che, in caso di rottura con l’Europa si riterrà libero di lasciare espatriare o espellere quei profughi assieme agli altri che arriveranno. Quale «ricatto»? La verità è un’altra: quel contratto del 2016 che ha consentito all’autocrate turco di incassare tre miliardi di euro, fu discutibile sotto il profilo morale.

Discutibile perché già allora si sapeva bene che pagavamo Erdogan affinché rinchiudesse quegli esuli in recinti molto simili a campi di contenzione. Né chiedemmo rilevanti contropartite di impegni a salvaguardia del profilo etico dell’operazione. Ci limitammo a raccomandare – come incredibilmente fa ancora oggi il segretario della Nato, Jens Stoltemberg – «moderazione». Quella «moderazione» che adesso l’Alleanza atlantica chiede ai tank di Erdogan entrati nella Siria settentrionale che già hanno provocato numerosi morti. Eravamo infine consapevoli, noi europei, del fatto che il regime turco avrebbe tenuto per sé buona parte dei miliardi di euro teoricamente destinati ai migranti. Altro che migranti: quei miliardi di euro erano il prezzo pagato per un’operazione sporca. Ragion per cui se adesso l’Europa giungesse a una (lodevole) rottura con il despota di Ankara, dovremmo considerare l’uscita dei profughi dalla Turchia alla volta dell’Europa come l’esito di un atto da noi compiuto nella consapevolezza delle conseguenze che avrebbe generato. Ma allora perché qualcuno dovrebbe esigere la rottura (o anche solo la minaccia di una rottura) tra Ue e Turchia nel caso in cui non vengano ritirati i militari della mezzaluna dal nord della Siria? Per il fatto che noi lo dobbiamo ai curdi, i quali meritano di avere una terra in cui poter vivere in pace. Soprattutto ora, dopo che coraggiosamente per anni hanno fronteggiato l’Isis che aveva iniziato a insanguinare l’Europa, e hanno combattuto, per così dire, al posto nostro. La causa curda andrebbe adesso sostenuta con la stessa fermezza con cui Mario Draghi ha sorretto le economie europee: «Whatever it takes». E qui veniamo al discorso su Trump. È ridicolo rimproverargli di aver abbandonato il Nord della Siria quando sappiamo che noi europei non abbiamo nessuna intenzione di andareasostituire, né tutti insieme né in ordine sparso, quei soldati statunitensi. Agli europei sfugge che le roboanti parole di sdegno e di sostegno morale contro le soperchierie dovrebbero all’occorrenza essere sorrette dall’uso della forza. Invece noi siamo da sempre noti campioni di un bellicoso intervento a chiacchiere al quale fa seguito una meticolosa disamina delle virtù della mediazione politica e, sotto il profilo militare, dei pregi del «non intervento». Fu così nel 1936, all’inizio della guerra civile spagnola, allorché Francia e Gran Bretagna non trovarono la determinazione per muoversi in soccorso della Repubblica aggredita (mentre l’Italia fascista e la Germania nazista davano una mano, probabilmente decisiva, alla causa di Francisco Franco). Con quell’assenza l’Europa democratica diede un inconsapevole contributo allo scatenamento della Seconda guerra mondiale. Ci fu poi nel secondo dopoguerra una sola occasione, tra il 1998 e il ’99, nella quale una parte del nostro continente si impegnò – sotto le insegne della Nato–in una «guerra umanitaria» (così la definimmo per attenuarne la portata); guerra che aveva lo scopo dichiarato di combattere le sopraffazioni dei serbi ai danni dei musulmani del Kosovo. Decidemmo allora di difendere un popolo più debole dalle angherie di un altro più forte. Un po’ come se adesso trovassimo il coraggio di fare qualcosa di altrettanto concreto a favore dei curdi e di porre un argine alle prepotenze turche. Ai tempi del Kosovo ottenemmo ciò che ci eravamo proposti, inclusa la deposizione del dittatore Milosevic, poi processato dalla Corte dell’Aja. Ci furono all’epoca – come è normale che sia – intellettuali che si schierarono con veemenza contro l’intervento «umanitario», a favore del despota serbo. Adesso, proprio nelle ore in cui i tank di Erdogan entrano in Siria settentrionale e si danno alle prime mattanze, viene assegnato il premio Nobel a Peter Handke. Quell’Handke che ai tempi negò la pulizia etnica dei serbi, non riconobbe la legittimità del Tribunale internazionale a giudicare su quei crimini per poi tenere un commosso discorso funebre sulla tomba di Milosevic. Certo il riconoscimento va alla produzione letteraria, non alle sue posizioni politiche di allora. Ma la coincidenza cela qualche recondito significato su cui sarebbe opportuno fermarci a meditare. Capiremmo, al termine di questa riflessione, perché – passato il momento delle lacrime esibite in pubblico – è assai improbabile che dall’Europa parta un’autentica, concreta iniziativaafavore dei curdi.