Piero Ignazi
Il cambio di partner di governo, da Lega a Pd, obbliga il M5S a decidere cosa vuole essere: se rimanere un movimento di protesta anti-establishment o diventare un partito realmente “di governo”, posizionato al centro del sistema politico. Anche se ha già avuto responsabilità governative per un anno e più , in realtà il M5S in tutto questo tempo continuava a considerarsi estraneo rispetto al sistema. Proprio grazie all’alleanza con la Lega, l’altro partito borderline, situato lungo il crinale dell’accettazione con riserva delle regole del gioco e propenso in realtà a forzarle ad ogni occasione, in attesa della spallata finale, i 5 Stelle potevano ancora sentirsi una componente non riconducibile alle logiche del sistema. La furia iconoclasta dei pentastellati, sintetizzata dalla famosa immagine della scatoletta di tonno da aprire, è stata sostenuta, incoraggiata dal rapporto con Salvini & co. Lega e M5S si nutrivano reciprocamente delle rispettive idiosincrasie verso tutto quanto proveniva dal passato: stili politici, scelte programmatiche, alleanze internazionali, prassi istituzionali. I 5 Stelle non avevano bisogno di elaborare il loro clamoroso cambio di ruolo, da opposizione descamisada a inquilini dei palazzi del potere, perché lo vivevano come una rivoluzione permanente, per cui tutto doveva cambiare intorno a loro. In effetti gli applausi al funerale dei morti del Ponte Morandi dette loro la sensazione di essere gli interpreti legittimi di una nuova fase politica, che spazzava via tutto il passato. E al loro fianco il successo di Salvini su una linea ancora più radicale rafforzava l’idea che giovava (continuare ad) essere contro. Poi, il Papeete, i pieni poteri, i rubli di Mosca, e l’umiliante sorpasso della Lega in termini di consenso hanno rotto lo schema, o meglio, l’incanto. I pentastellati si sono accorti che governare a dispetto del mondo portava frutti solo a chi alzava continuamente la posta. Mentre un atteggiamento del tutto diverso, come il voto a Ursula von der Leyen, riposizionando il partito nel mainstream europeo, aveva immediate ricadute positive. La sintonia giallo-verde si infrange proprio quando si incrociano le strade per Strasburgo e Milano Marittima. L’abbandono dell’alleato leghista non è senza rimpianti, perché l’accordo con il Pd, cioè l’espressione più compiuta della tradizione repubblicana e democratica, obbliga il M5S a qualificarsi anch’esso come un partito pienamente inserito “nel sistema”. Beppe Grillo ha favorito questo passaggio quando ha parlato della necessità di cambiare in quanto «non siamo più gli stessi di dieci anni fa». Ma, anche se nessuno può contestare il “garante” che, ricordiamolo, ha il potere statutario e tutta la legittimità di rimuovere “il capo politico”, cioè Di Maio, in realtà proprio quest’ultimo recalcitra ad accettare la nuova maggioranza, e di conseguenza la nuova fase pro-sistema del proprio partito. Di Maio ha rallentato e ostacolato quanto più possibile l’intesa con il Pd. Il suo cuore batte ancora per Salvini. Nelle sue recenti prese di posizione affiora un fondo di “lazzaronismo”: niente tasse, niente regole, niente Stato, in linea con la protesta anti-sistemica del Nord leghista. Se il M5S segue Di Maio su questa strada e continua ad autorappresentarsi come un movimento di protesta, allora il governo Conte non può durare a lungo perché rappresenta la negazione di questa visione. Una crisi di governo innescata dal capo politico pentastellato è improbabile in quanto avrebbe conseguenze devastanti per il M5S; ma certamente è in atto un lavorio per indebolire il presidente del Consiglio e minare l’ipotesi di una alleanza strategica tra Pd e 5 Stelle in funzione anti-destra. I 5 Stelle sono ad un bivio: o tornare al ribellismo anti-establishment per ritrovarsi tra le braccia di Salvini o proseguire nell’accettazione delle logiche e delle prassi dei partiti pienamente pro-sistema.