Raffaele Borriello

In questi giorni si è improvvisamente riacceso il dibattito sul Ceta e sulla sua ratifica da parte del Parlamento italiano, con qualche scintilla nell’ambito della maggioranza. Alimentare di nuovo polemiche è l’ultima cosa di cui il nostro Paese ha bisogno, specie, come sarebbe nel caso del Ceta, su questioni che coinvolgono la nostra appartenenza all’Unione europea e la nostra capacità di trovare alleanze. Ma il problema non è gettare acqua sul fuoco per sopire le polemiche: piuttosto, questa può essere un’occasione per “rigirare” in positivo, come opportunità e banco di prova della volontà di collaborare anche dell’Europa, una questione spesso affrontata – sia dai sostenitori che dai detrattori del Ceta – con semplificazioni talvolta eccessive. Per la cronaca, il Ceta (Comprehensive economic and trade agreement) è un trattato internazionale di ampio respiro che prevede – accanto ad altre forme di cooperazione – un accordo commerciale di libero scambio tra Canada e Unione europea. Il trattato, conformemente alla procedura prevista in questi casi dalla Ue, è stato negoziato dalla Commissione europea ed è entrato in vigore in forma provvisoria, il 21 settembre 2017, in attesa della successiva fase di ratifica da parte degli Stati membri della Ue. Va anche ricordato, al riguardo, che i parlamenti dei singoli Stati membri non hanno alcun potere di emendare l’accordo, né di porre condizioni alla sua ratifica: possono solo decidere di non ratificarlo, esercitando una sorta di potere di veto, con conseguenze che sarebbero molto pesanti non solo e non tanto perché metterebbero a repentaglio la definitiva entrata in vigore dell’accordo, ma perché minerebbero alla base la credibilità della Commissione europea come negoziatore in qualunque futuro negoziato internazionale. Al momento, sono 15 gli Stati membri che hanno già ratificato il Ceta (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Croazia, Lituania, Lettonia, Malta, Svezia, Finlandia, Regno Unito e Francia) e le recenti turbolenze innescate dagli agricoltori francesi, che hanno dato non pochi grattacapi al presidente Emmanuel Macron, confermano che per il settore agroalimentare si tratta di un tema controverso. Dal punto di vista dell’analisi economica, come vale del resto per tutti gli accordi di liberalizzazione commerciale, il Ceta è destinato a generare benefici ampi e diffusi, specie per i Paesi, come l’Italia, vocati all’esportazione e portati comprare all’estero materie prime da trasformare: meno dazi significa importazioni più a buon mercato e maggiori possibilità di accedere ai mercati esteri per lo sbocco delle proprie esportazioni. In più, il diffondersi di accordi di liberalizzazione può essere un antidoto alla globalizzazione “muscolare” alla Trump – scandita dai continui e repentini “stop and go” di minacce e riappacificazioni – nel cui ambito un Paese piccolo come l’Italia non può che affidarsi alla partecipazione cooperativa alla Ue e al rispetto degli accordi che essa sottoscrive. Dunque, in questa prospettiva e nel suo complesso, il Ceta converrebbe, per cui mettersi di traverso nella procedura di ratifica a livello nazionale non avrebbe molto senso. È pur vero, tuttavia, che sul fronte del commercio agroalimentare l’accordo presenta non pochi punti sensibili e controversi: la poca trasparenza delle trattative, la mancata occasione di estendere la lista dei prodotti a indicazione geografica tutelati dall’accordo, le problematiche sulle barriere non tariffarie su salute, ambiente e lavoro, il rischio che esso possa generare un abbassamento degli standard di qualità e che dia sempre più diritto di cittadinanza a prodotti di Italian sounding che possono danneggiare il processo di valorizzazione del vero made in Italy (Parmesan, San Daniele canadese, etc). In ogni caso, il tema è complesso e la discussione politica non si può semplificare nel posizionamento pro e contro il Ceta, specie quando questo si basa sul richiamo di dati estemporanei di export o import degli ultimi anni o mesi, che di per sé non dimostrano nulla, essendo molte altre le variabili in gioco. Insomma, si può e si deve evitare di buttare il bambino con l’acqua sporca, ma non è giusto chiedere all’agricoltura di fare comunque buon viso a cattivo gioco. Come si diceva all’inizio, la questione si può rigirare in positivo avviando immediatamente, ancor prima della discussione in Parlamento, un percorso di riflessione in sede europea per integrare l’accordo esistente per la parte agricola: una sorta di Ceta 2, o se si preferisce un allegato al Ceta, da negoziare con il Canada – stavolta in modo più trasparente e partecipato – ed esplicitamente rivolto a tenere meglio conto delle esigenze e della distintività di ampie realtà dell’agricoltura europea. Con un po’ di ottimismo, si può credere che ci siano le condizioni per una operazione virtuosa di questo tipo: il bisogno del nuovo governo di dimostrare la sua capacità di generare cooperazione politica più che conflitti da dirimere; il suo orientamento europeista e la migliore posizione dell’Italia negli equilibri della Ue rispetto al recente passato; il comune interesse che su questo terreno condividiamo con la Francia; il fatto che Phil Hogan, il nuovo commissario al Commercio, viene dall’esperienza del portafoglio agricolo e dunque avrebbe tutta le conoscenze e le sensibilità necessarie per negoziare al meglio un Ceta 2 di interesse agricolo. Su questa linea sembra essere anche l’ultima dichiarazione della nuova ministra Teresa Bellanova: «Il Ceta è in vigore, abbiamo bisogno di fare un ragionamento con il mondo della rappresentanza, analizzare i risultati e capire insieme cosa fare in sede europea per apportare le modifiche che dovessimo ritenere fondamentali». Sono dichiarazioni di buon senso, un punto da cui partire. Direttore generale dell’Ismea.