Riccardo Luna
Di chi sono gli orari dei treni? E le informazioni sui prezzi e i ritardi? Sì certo, dell’operatore ferroviario. Ma qualcuno può riutilizzare questi dati per fornire un servizio migliore agli utenti? Su queste domande è in corso una battaglia legale dal cui esito dipenderà la qualità della vita di milioni di pendolari. La storia è questa: dal 2014 c’è una app, Trenit, che ha molto successo. Ha superato i tre milioni di download e ogni giorno più di 80 mila viaggiatori la utilizzano per informarsi, in particolare sui ritardi dei treni, e sugli scioperi. L’ha sviluppata GoBright , una startup fondata a Londra da uno sviluppatore italiano, Daniele Baroncelli. Tutto fila liscio fino a quando, lo scorso novembre, viene aggiunta la funzione Alta velocità, che compara, per ciascuna fascia oraria, i prezzi dei biglietti fra i due operatori ferroviari. A gennaio Trenitalia manda una prima diffida, a maggio parte la causa («Non potete usare i nostri dati», dice in sostanza oltre a contestare persino il nome della app); a luglio il tribunale, in attesa di decidere nel merito, sospende la app; e qualche giorno fa, quella decisione viene sconfessata. Il 6 settembre Trenit torna online e i pendolari esultano. Non è un modo di dire: su Facebook il post che dà notizia della vittoria temporanea scatena tredicimila reazioni positive (le faccine delle emoticon ), viene condiviso duemila e 500 volte, ma quello che più colpisce sono i commenti, oltre quattromila, di autentico giubilo. Trenit piace, non c’è dubbio.
E il giudice il 4 settembre ha stabilito tre principi importanti: il primo è che la banca dati degli orari e dei prezzi non è protetta dal diritto d’autore, manco fosse una canzone o una poesia; il secondo è che Trenitalia se nega l’utilizzo di quei dati abusa della sua posizione dominante; il terzo è che essendo Trenitalia controllata al 100 per 100 da Ferrovie dello Stato, ai suoi dati si applica il codice dell’amministrazione digitale, e quindi sono aperti a tutti per definizione.
Ma la partita non finisce qui. Trenitalia sostiene che farà di tutto per tutelare i suoi utenti e lamenta il fatto che «ogni giorno dalla app arrivano circa 800 mila richieste» al suo sito, «con picchi che superano le 14 mila richieste ogni dieci minuti ». Afferma che in questo modo il suo sistema di vendita, che è costato investimenti importanti, viene danneggiato; che nessuno può riutilizzare quelle informazioni a fini commerciali (Trenit ha dei banner pubblicitari); e afferma che Trenit «presentando un quadro incompleto del pacchetto di offerte di Trenitalia, non consente un confronto trasparente ed equilibrato». Infine conclude dicendosi «aperta a condividere i propri dati con chi sottoscrive accordi commerciali». Pagando, e senza fare confronti con i dati di altri operatori però.
Su molte questioni la parola passa al giudice di merito ma una sembra già essere stata risolta dal tribunale di Roma qualche giorno fa quando ha scritto che i servizi di GoBright non danneggiano in alcun modo Trenitalia (di cui, invece, promuovono i servizi).
Più in generale il tema è: di chi sono quei dati? La cosa nel mondo è già stata dibattuta a fondo nel 2014, l’anno del lancio di Trenit, quando l’associazione degli operatori di trasporto pubblico (UITP), di cui fa parte Trenitalia, approvò un documento intitolato “I benefici degli open data”, in cui si enunciavano alcuni principi molto importanti. In particolare questo: «Tutte le organizzazioni di trasporto devono essere proattive nel supportare gli open data per i benefici che portano agli utenti che serviamo… C’è una evidenza inoppugnabile da diversi paesi che la fornitura di dati aperti dia dei vantaggi a tutti». Quali vantaggi, il documento lo diceva: stimola innovazione ed efficienza; assicura apertura e trasparenza; favorisce la competizione fra operatori e consente la creazione di posti di lavoro nel settore tecnologico. Gli unici dati che non devono essere condivisi, secondo l’UITP, sono le informazioni personali dei passeggeri, quelle confidenziali e quelle dove c’è un diritto d’autore di terzi. Non certo gli orari dei treni, par di capire.
Del resto già nel 2014, grazie ai dati aperti di Transport for London , cinquemila sviluppatori gratuitamente avevano sviluppato centinaia di app che, secondo uno studio di Deloitte, aveva consentito ai pendolari risparmiare tempo pari a 58 milioni di sterline all’anno. Un esempio fra i tanti, ma che non sembra aver convinto Trenitalia ad adottare una linea diversa dal confronto duro in tribunale. Anche qui, si tratta di qualcosa che vediamo solo in Italia: un colosso contro una startup. Vinca il migliore.