Roberto Bongiorni

Il lancio è imminente, già in dicembre. Il luogo da cui sarà messo in orbita il primo satellite etiope sarà però la Cina. Non è un caso se questo sofisticato apparecchio di telerilevamento multispettrale, noto come ETRSS-1, sia stato relizzato in collaborazione con il colosso asiatico. In Etiopia tutto, o quasi, parla cinese. D’altronde dal 2006 al 2015 Pechino ha concesso prestiti per oltre 13 miliardi di dollari, aggiudicandosi la costruzione di strade, ferrovie, parchi industriali. «Il satellite fornirà tutti i dati necessari sui cambiamenti climatici e sui fenomeni meteorologici che saranno utilizzati per gli obiettivi principali del Paese in agricoltura, silvicoltura e iniziative di protezione delle risorse naturali» ha detto,visibilmente soddisfatta, la neo presidente etiope Sahle-Work Zewde. Una donna, come peraltro la metà dei ministri che compongono l’ultimo Governo. Se nel 2000 qualcuno avesse ipotizzato un programma spaziale etiope da lì a meno di 20 anni, lo avrebbero preso per pazzo. Perché il secondo Paese più popoloso dell’Africa ancora nel 2002 era uno degli Stati più poveri al mondo, flagellato da siccità a carestie, con poche vie di comunicazione. Oggi al posto delle strade in terra battuta, ci sono autostrade, nuove ferrovie, ponti e grandi dighe. Lo skyline della capitale Addis Abeba si arricchisce ogni anno di grattacieli in vetro. Nelle zone franche si parlano decine di lingue straniere. La metamorfosi dell’Etiopia è il paradigma della rinascita africana. Ed in questo profondo cambiamento sociale, politico ma anche, e soprattutto, economico, il giovane premier, Abiy Ahmed Ali, insignito venerdì del premio Nobel per la pace, è uno dei protagonisti assoluti. Il suo programma di riforme – una sorta di perestroika africana – sta accelerando. Il piano per l’economia è tanto ambizioso quanto chiaro; trasformare un Paese dominato e soffocato da un’economia di Stato in un mercato libero e competitivo alimentato dal settore privato. Solo così potrà continuare quella formidabile crescita economica che negli ultimi 15 anni ha fatto registrare al Pil un incremento medio annuo del 10 per cento. Certo, si potrebbe obiettare che si partiva da valori davvero bassi. Ma se le stime per il futuro sono corrette, da qui al 2030 questa dinamica economia crescerà ancora del 7% annuo. Per il Fondo monetario internazionale l’economia etiope crescerà quest’anno del 7,7% ed il prossimo del 7,5. Incrementi che fano apparire del tutto anemica non solo la crescita dell’Eurozona (+1,3% nel 2019 e +1,6% nel 2020) ma in parte anche quella mondiale (+3,2% e +3,5%). È proprio da questo Paese, un catalizzatore di investimenti internazionali, che passa il rilancio economico del Continente. Certo le difficoltà non mancano. La conquista della stabilità politica, a cui ha giovato moltissimo l’accordo di pace con l’Eritrea voluto dal premier Abiy nel 2018, è senz’altro un punto di forza. Ma la spinta riformatrice del giovane premier, se non gestita con oculatezza, rischia di avere un effetto opposto. In questo Paese di 105 milioni, dove vivono 80 etnie e centinaia di tribù, i rigurgiti secessionistici sono dietro l’angolo. L’articolo 39 della Costituzione etiope concede infatti il diritto di secessione a tutti gli Stati regionali della federazione etiope. Abolita la censura, una valanga di nuovi giornali e radio ha invaso il Paese. Alcuni dei quali stanno cavalcando le tensioni etniche. In uno Stato dove sono presenti ancora diverse milizie armate, qualcuno ha paragonato il Paese a una polveriera. Anche sul fronte economico non ci sono soltanto luci. Le ombre si chiamano debito pubblico, inflazione, disoccupazione, le difficoltà per le imprese straniere di reperire valuta pregiata, un sistema bancario non sempre all’altezza. Ad alimentare la crescita sono stati soprattutto i grandi progetti infrastrutturali governativi. Il Paese si è costantemente indebitato, soprattutto con la Cina, ed ora il debito rappresenta un problema ingombrante e non sostenibile sul lungo periodo. Eppure, al di là delle criticità, per le imprese straniere desiderose di investire il gioco sembra valere la candela. Pochi Paesi sembrano essere così attraenti. Il costo del lavoro è ancora decisamente basso, il mercato interno ampio (il 70% della popolazione ha peraltro meno di 30 anni), la disponibilità di fonti idriche e di fonti energetiche nazionali (idroelettriche) è abbondante. Per l’Italia c’è il vantaggio di collegamenti aerei diretti e la presenza di una comunità ben inserita. I settori in cui le aziende italiane, puntando sul loro know how e sulla qualità, potrebbero eccellere, sono numerosi: si va dall’agroalimentare, alle costruzioni e al manifatturiero, passando per l’energia, le costruzioni, fino al trattamento dei rifiuti. L’Etiopia ambisce peraltro a divenire un polo di riferimento per l’industria tessile e conciaria su scala globale. Molto dunque. I vantaggi fiscali per le aziende straniere e le agevolazioni sulla politica dei dazi sono un altro punto di forza. Eppure, il nostro interscambio commerciale resta al di sotto delle reali potenzialità e sta segnando un calo dal 2016. Nel 2018 ammontava a 291 milioni di euro, con un saldo commerciale in deciso attivo. La nuova Etiopia appare dunque la locomotiva della rinascita dell’Africa. Ne condivide le potenzialità ma anche le vulnerabilità. Il suo incremento demografico potrebbe rappresentare un punto di forza, o di debolezza. Nel 1992, gli etiopi erano 50milioni, oggi, secondo la Banca mondiale, sono raddoppiati a 105 milioni. Nel 2050 saranno quasi 200 milioni. Per assorbire una tale mole di forza lavoro che si riverserà ogni anno sul mercato, occorreranno consistenti aumenti del Pil e investimenti stranieri. Ma,al contempo, l’ascesa della classe media offrirà un grande serbatoio di consumatori. Secondo le proiezioni, le persone che vivranno in estrema povertà (la soglia è calcolata in 1,9 dollari al giorno) crolleranno dal 22% del 2018 a meno del 3% nel 2030. Nel 2000 erano il 44 per cento. Nessun Paese in Africa è stato altrettanto efficiente.