Roberto D’Alimonte
La riforma elettorale non si farà. Quanto meno non ora. Il proporzionale può attendere. È una buona notizia per diversi motivi. Negli ultimi 26 anni le regole di voto sono state cambiate sei volte. Quattro riforme elettorali sono state fatte dal Parlamento, due dalla Corte costituzionale. Un record mondiale. La settima riforma, quella apparentemente rinviata, avrebbe riportato l’Italia ai tempi della Prima Repubblica senza i partiti e la classe politica di allora. Già ora i governi sono poco stabili. Figuriamoci con un sistema elettorale interamente proporzionale. L’attuale sistema, il cosiddetto Rosatellum, non è il migliore dei mondi possibili. I seggi proporzionali sono troppi rispetto a quelli maggioritari. I collegi uninominali sono il 37%. Avrebbero dovuto essere il 50 % o meglio ancora il 75% come nella legge Mattarella. Ciò nonostante il fatto che siano un terzo fa comunque la differenza perché produce due effetti positivi. Il primo è che i partiti devono dichiarare prima del voto con chi si vogliono alleare per fare il governo. La formazione di coalizioni pre-elettorali è la caratteristica distintiva di tutti i sistemi di voto introdotti nel nostro paese a partire dal 1993. È così a tutti i livelli di governo, dai comuni alle regioni allo Stato. Il secondo effetto riguarda la trasformazione dei voti in seggi. Con una percentuale di voti compresa tra il 40 e il 45% si può ottenere la maggioranza assoluta di seggi. È un tasso di disproporzionalità limitato, ma non irrilevante. Se nel Paese esiste un consenso di queste dimensioni a favore di una coalizione saranno gli elettori a scegliere il governo. Se i consensi sono inferiori saranno i partiti dopo il voto a decidere come farlo, Esattamente come è successo con i due governi Conte. Il Rosatellum è un sistema di voto flessibile. Funziona sia come un sistema maggioritario che come un sistema proporzionale. Tutto dipende dal livello di consensi e dalla loro distribuzione territoriale. In sintesi, un tasso di disproporzionalità compreso tra i 5 e i 10 punti percentuali non è elevato ma serve a favorire la creazione di maggioranze in sistemi di partito frammentati. In sua assenza alla disproporzionalità generata dal sistema di voto si sostituirebbe il potere di ricatto di piccoli partiti detentori di piccole quote di seggi necessari per arrivare alla maggioranza assoluta. I Ghino di Tacco di craxiana memoria. A questa analisi ne va aggiunta una altra. A partire dalle elezioni del 2013 il sistema partitico è diventato tripolare grazie al successo clamoroso del M5s. Due volte consecutive il movimento di Grillo è stata la formazione politica più votata, con il 25,6% nel 2013 e con il 32,7% nel 2018. Dopo le ultime elezioni è diventato l’ago della bilancia della politica italiana. E si è visto cosa è successo. Prima ha fatto un governo con la Lega, e ora con Pd e Leu. L’introduzione di un sistema di voto interamente proporzionale servirebbe a perpetuare questa dinamica. Anche con una percentuale di voti inferiore a quella del 2013 e del 2018 il Movimento diventerebbe indispensabile per fare qualunque governo. Solo una alleanza Pd-Lega potrebbe evitare questo esito. C’è qualcuno disposto a credere a una operazione del genere? Dunque, il proporzionale conviene al Movimento. Ma perché dovrebbe convenire al Pd? Con la formazione del secondo governo Conte siamo entrati in una nuova fase della politica italiana. Pd e M5s (insieme a Leu) hanno deciso di mettersi insieme. Da tanti punti di vista è un fatto sorprendente che potrebbe rappresentare una vera svolta. I poli intorno a cui si articola la competizione elettorale sono tornati ad essere due, e non più tre. Non siamo così ingenui da pensare che questo sia ancora un assetto stabile. Il rapporto tra Pd e Movimento è ancora molto fragile. Ci vorrà del tempo per capire se potrà diventare una alleanza strategica. Si vedrà a partire dalle scelte che verranno fatte in tema di politica economica e di alleanze alle regionali dell’anno prossimo. Ma una cosa è certa. L’adozione di un sistema proporzionale non favorirebbe il rafforzamento dell’alleanza tra i due partiti. E senza questa alleanza come pensa il Pd di poter competere per il governo contro una destra unita? In realtà dietro i disegni neo-proporzionalisti coltivati dentro e fuori il Pd si nasconde un altro obiettivo. Non quello di vincere, ma quello di non far vincere la destra, anche a costo di sacrificare la governabilità del paese. Meglio l’instabilità che la vittoria di Salvini. Non sono più i Cinque Stelle il partito anti-sistema. È la Lega di Salvini. E allora davanti al rischio che un partito anti-sistema arrivi al governo del paese diventa legittimo manipolare per l’ennesima volta le regole del voto, come se questa fosse diventata una procedura normale. Il taglio dei parlamentari fornirà l’alibi. Spaventa la leggerezza con cui tanti condividono questa idea senza vederne i rischi. Cambiare, oggi o domani, le regole del gioco non farà altro che indebolire ancora di più la fiducia nelle istituzioni e dividere ulteriormente un paese già spaccato. Non servirà a impedire alla destra di arrivare al governo. Anzi. Ma per adesso la decisione è stata rinviata. Meno male.