Roberto Petrini
«Ogni euro risparmiato sulle prossime emissioni dei nostri titoli di Stato consente di eliminare, immediatamente e automaticamente, il capitolo più improduttivo della spesa pubblica in modo da liberare risorse pronte per essere investite nelle infrastrutture, nella scuola nella sanità, nella riduzione del carico fiscale». Con queste parole Giuseppe Conte gioca in Parlamento la carta più preziosa del nuovo governo M5S-Pd sul terreno dei conti pubblici: lo spread. Il premier chiama addirittura la riduzione della spesa per interessi, che vale 60 miliardi all’anno, «una vera e propria riforma strutturale» per il suo peso sulle finanze dello Stato.
Ed è proprio questa, almeno sul terreno dell’economia, la vera discontinuità rispetto ai 14 mesi del governo con la presenza dei leghisti: il nuovo rapporto con l’Europa, con i mercati. Mentre per l’intera durata dell’esecutivo gialloverde i rumori di Italexit e la guerra con Bruxelles avevano tenuto lo spread, cioè la differenza di rendimento tra Btp italiani e Bund tedeschi, sempre ad un passo da quota 300, negli ultimi giorni viaggia tranquillamente intorno a quota 150 come nel marzo dello scorso anno, prima delle elezioni politiche. Secondo i primi calcoli di Confindustria questo livello ci consentirà di risparmiare circa 3 miliardi di spesa per interessi quest’anno e circa 6,8 nel 2020: parte di questa cifra — in tutto circa 10 miliardi — è già scontata nei tendenziali del prossimo anno ma parte potrà essere utilizzata per far fronte alle necessità di bilancio.
Se lo spread è il valore aggiunto del governo Conte, la marcia verso la manovra 2020 è ancora tutta in salita. Il calcolo per ora è di 30-35 miliardi, compreso il cuneo fiscale «a totale vantaggio dei lavoratori» e naturalmente la sterilizzazione dell’aumento dell’Iva. Si tratta di una cifra che potrà crescere anche perché il premier ha accennato a misure sociali che avranno un costo, come gli asili nido gratuiti, le assunzioni nella sanità, gli investimenti al Sud. Tuttavia Conte ha circoscritto definitivamente il campo delle grosse spese: la riduzione delle aliquote Irpef sparisce di scena e viene collocata in «prospettiva», anche l’operazione salario minimo — che altrimenti sarebbe costata 4 miliardi — viene ricompresa nell’estensione erga omnes dei contratti nazionali e viene affiancata da misure per il giusto compenso per i liberi professionisti e dalla parità di genere per le retribuzioni.
Se si considera che la flessibilità su cui punta l’Italia sarà di 12-13 miliardi, restano dunque da recuperare una ventina di miliardi. Conte non ha eluso il tema dei conti pubblici: «Sarà una manovra impegnativa », ha detto. E ha confermato due linee di intervento: «controllo rigoroso della spesa corrente», con spending review, e «riordino del sistema delle agevolazioni fiscali». Qui il cammino si fa pieno di ostacoli: anche perché la tabella lasciata in eredità da Tria e dalla Rgs prevede 6 miliardi di risparmi su entrambi i fronti, spese e sconti fiscali.
Sul fronte dei tagli si tenterà il mix collaudato di enti locali, ministeri, beni e servizi che potrebbe in parte funzionare; sul lato fiscale la proposta M5S di 2 miliardi tra nuove imposte ambientali e tagli ai Sda (sussidi ambientalmente dannosi) potrebbe contribuire al menù principale, insieme ad una sforbiciata lineare delle detrazioni fiscali dal 19 al 18 per cento. Senza contare l’evasione fiscale: «Le tasse le devono pagare tutti», ha intimato Conte.