Roberto Saviano

Immaginate di aprire il vostro computer e di trovare sul desk un documento non redatto da voi che raccolga in ordine tutti i dati della vostra vita. Quando vi siete diplomati, la foto in cui siete allo stadio, la patente, gli audio mandati su WhatsApp. E poi, scavando, ogni singolo dettaglio: una foto di quando eravate ubriachi a una festa dieci anni fa, il dettaglio di un bacio dato alla moglie del vostro migliore amico che entrambi avete giurato di non raccontare e di non far accadere mai più. E ancora: l’elenco di tutti i porno che avete visto, la mappatura di ogni commento stupido e sessista detto in una telefonata. Un selfie da nudi, la foto fatta al compleanno di vostra madre, un video al museo del Louvre. Ebbene, questo documento esiste. O meglio, potrebbe esistere e non è una fantasia distopica, né un’esagerazione: la persona che di tutto questo ha portato prova, documentazione, esperienza diretta ce l’ho davanti ai miei occhi ora ed è Edward Snowden. Non cercate di catalogare in mente, andando a ritroso, le cose fatte o i file inviati che potrebbero esporvi; troppo tardi, è ormai cosa irrimediabile. E anche se aveste vissuto come un monaco trappista nelle alture del Golan, qualche elemento per mettervi in imbarazzo lo si trova sempre. Ah, sia chiaro, non ci sono reati in quest’elenco, nemmeno uno. E a ben vedere neanche immoralità, ma elementi personali, gusti, contraddizioni, errori, passioni di cui dovreste rispondere soltanto a voi stessi o a chi decidete di metterne a parte ma che, se finissero nelle mani di qualche “giornalista” pagato (o a qualche “tribunale”, dipende dallo Stato in cui vivete) per fare killeraggio sulla vostra reputazione, comprometterebbero la vostra immagine pubblica e dovreste spendere tempo e energie a giustificarvi. Non tutti abbiamo un profilo pubblico, potreste obiettare. Non siamo giornalisti, né volti della tv, non siamo politici né scrittori. Vero, eppure paradossalmente questo genere di informazioni, se rese pubbliche, fanno più danno alle persone comuni che, da sole, si trovano costrette a difendere il proprio privato all’interno di una comunità di persone in carne e ossa, che giudicano e stigmatizzano, e non di odiatori virtuali da social media. Ora però calmate il respiro, nessuna paranoia. Non c’è nessuno che vi stia spiando. Nessuno con occhi voce orecchie; ma ci sono strutture tecnologiche che raccolgono tutto, con il consenso del vostro governo e all’occasione, se serve, se fate qualcosa che non va fatto, se diventate nemico di qualcuno, le informazioni disponibili su di voi verranno selezionate e consegnate a chi potrà servirsene in modo lecito o illecito, secondo arbitrio. Cosa avete fatto? Molto spesso nulla, ma è bastato spiarvi nella vostra normale vita di tutti i giorni per rendervi “mostri”. Snowden ha scritto un libro, “Errore di Sistema”, in cui racconta come sia riuscito a scoprire tutto questo e come la sua vita lo abbia portato a scegliere di svelare la più grande violazione di massa della privacy mai accaduta in una democrazia. SAVIANO: Edward, quindi non c’è modo di difendere la propria privacy? SNOWDEN: «Non puoi pensare che non ti interessa la privacy perché non hai nulla da nascondere, sarebbe come dire che non ti interessa la libertà di stampa perché non ti piace leggere o che non ti importa della libertà di culto perché non credi in Dio. La privacy è l’espressione individuale di un diritto collettivo. Ma quando costruiscono un sistema che cataloga, immagazzina, sfrutta gli scambi tra esseri umani, per usarli contro di noi, devi stare in guardia e chiederti: e ora che cosa ci succederà?». Snowden mi sta parlando da uno schermo, mi parla dal suo esilio lungo ormai sei anni. Da quando nel 2013 ha rivelato ciò che accadeva, gli Stati Uniti gli hanno revocato il passaporto e lo hanno denunciato per aver rivelato i programmi della Nsa: questo è ciò che si sa di lui. Nel libro c’è tutto il resto. Il suo primo atto di hackeraggio lo fa a sei anni quando, per andare a dormire due ore dopo l’ordine della madre, cambia l’orario di tutti gli elettrodomestici di casa, riuscendo a ingannare la famiglia. La sua prima operazione importante risale ai suoi sedici anni, quando scopre che il sito di Los Alamos può essere “bucato” per trovare documenti ad uso interno. Chiamano a casa, la madre crede che abbia fatto danni, invece vogliono assumerlo, ma non sanno che è minorenne. Edward Snowden è il classico nerd che passa le giornate sul Web e con i videogiochi. Quando non è collegato, Edward pensa a quando si collegherà e nel suo libro racconta benissimo la trasformazione del Web. «So bene quale luogo tossico e insano sia diventato oggi il Web, ma dovete capire che per me, quando ci sono entrato in contatto per la prima volta, Internet era qualcosa di totalmente diverso. Era come un amico, un genitore. Tutti indossavamo delle maschere, eppure questa cultura dell’“anonimato attraverso la polionimia” produceva più verità che falsità, perché aveva un carattere creativo e cooperativo, più che commerciale e competitivo. Dopo la bolla… Le aziende capirono che le persone, quando si trovavano online, erano più interessate a condividere che a spendere, e che la connessione umana che Internet aveva reso possibile poteva essere monetizzata: dovevano semplicemente trovare il modo di inserirsi in questi scambi sociali e trarne profitto. Così è iniziato il capitalismo di sorveglianza, decretando la fine di Internet per come la conoscevo io». Come è avvenuto, in concreto, questo passaggio? «Le persone, attirate dalla maggiore facilità d’uso, hanno preferito abbandonare i propri siti personali – che richiedevano un costante lavoro di manutenzione – a favore di pagine Facebook o account Gmail, dei quali, però, erano proprietari solo nominalmente. Chi era succeduto alle società che avevano fallito nell’e-commerce ora aveva un nuovo prodotto da venderci. Quel prodotto eravamo noi stessi. I nostri interessi, le nostre attività, i nostri desideri». Se avessi di fronte Zuckerberg, che cosa gli diresti? «Non penso che sarebbe interessato a conoscere la mia opinione, perché mi pare un uomo piuttosto sicuro di sé». Insisto. «Gli chiederei: come vuoi essere ricordato? Credo che quando Zuckerberg invecchierà, si guarderà indietro, vedrà il suo fascicolo personale e si rammaricherà di non aver usato le risorse di cui oggi dispone per qualcosa di più nobile, che non vendere più pubblicità». “Permanent Record”, “Fascicolo personale”, è il titolo in inglese del libro di Snowden e indica tutte le informazioni che non è più possibile cancellare su di te. “Errore di sistema” è il titolo scelto da Longanesi e credo sia più su misura di Edward, perché rappresenta quel tassello del sistema che doveva funzionare e che invece… Forse come titolo lo prediligo. C’è un passaggio in “Errore di Sistema” che descrive come, la prassi di registrare, non visti, le abitudini private di tutti noi, non sia stata mai condivisa con nessuno: mai votata, mai approvata. “Il governo americano – scrive Snowden – nel più totale disprezzo dei principi della Carta costituzionale, ha ceduto alla tentazione e, una volta assaggiato il frutto dell’albero avvelenato, è stato colto da una smania irrefrenabile. Ha assunto in segreto il controllo della sorveglianza di massa, un’autorità che, per definizione, affligge più gli innocenti che i colpevoli”. Si può recuperare la libertà del Web? «Non credo che possiamo riportare le cose come erano un tempo, ma penso che possiamo ricordare che esistono dei valori e rispettarli. Ci sono persone più intelligenti di me, persone come l’inventore del World Wide Web, Tim Berners, che si sta dedicando a una cosa che si chiama re-decentralizzazione di Internet». Il punto di caduta del tuo discorso è che, in definitiva, non usiamo più il Web, ma siamo usati dal Web. «I cittadini oggi sono meno consapevoli di ciò che accade nelle nostre democrazie e, invece di essere soci della rete, sono diventati oggetto della rete». Che cos’è la re-decentralizzazione? «Re-Decentralizzare, ossia fare in modo che il sistema non abbia più bisogno di trattenere i nostri dati per fornire servizi. Per capire il motivo per cui internet è diventato quello che è oggi, dobbiamo ragionare in termini di servizio pubblico. Tu paghi l’acqua e le società che gestiscono servizi idrici non pensano a come la usi. La stessa cosa vale per l’elettricità. Ma quando si parla di Internet, o di qualsiasi forma di comunicazione che utilizzi Internet, come ad esempio le smart tv, non ti permettono di usare una banale connessione internet che non possono controllare. I giovani sono naturalmente affascinati e attratti dalla tecnologia perché le macchine non discriminano. È il primo vero incontro che i bambini hanno con una realtà in cui vengono trattati non da bambini, ma come gli altri, perché un computer o uno smartphone non coglie la differenza. Ciò che è cambiato, rispetto a quando ero bambino io, è che la tecnologia con cui interagivo non si ricordava di noi». Che cosa pensi della condivisione sui social delle fotografie dei bambini? «È estremamente pericoloso il fatto che oggi, partendo dalle immagini che le mamme postano di un’ecografia su Facebook, Twitter o Instagram, la storia privata dei bambini venga catturata e conservata, e che non sia posseduta o controllata da chi l’ha creata. Sono terze parti, aziende, gruppi di aziende o governi che assoldano queste società come “delegati” per avere informazioni. Quello che cercano di creare è un “grafico sociale” a partire da una semplice connessione tra persone che conosci, con cui parli e interagisci». In termini pratico questo che cosa comporta? «La differenza tra me bambino e la mia generazione è che io potevo fare errori, potevo dire cose terribili, provare momenti di vergogna e fare cose di cui mi pentivo e che facciamo tutti da piccoli, perché fare errori ci fa crescere. Oggi invece le persone sono desensibilizzate perché sanno che quello che hanno detto rimarrà, non puoi dire che era stato un errore e devi difenderti e giustificarti e finisci per rafforzare un’identità in cui non ti ritrovi più, che non volevi, ma è troppo tardi: sei intrappolato nel tuo passato. Ogni cosa che facciamo ora dura per sempre, non perché vogliamo ricordarla, ma perché non ci è permesso dimenticarla». Vuoi dire quindi che qualsiasi cosa diciamo o scriviamo ci perseguiterà? «Viviamo gli errori come un archivio. Molti giornalisti si chiedono, ad esempio, se io sia un eroe o un traditore, perché ci piace l’idea competitiva di schierarci, di scegliere una squadra. Quello che neghiamo sono le nostra capacità, credendo di essere incapaci sia di fare del bene che di evitare il male». Ciò che abbiamo di più prezioso, ovvero la nostra vita, che è composta di tracce e dati, la lasciamo fluttuare nel Web, la diamo via in cambio di niente e senza accorgercene. Come accade? «Storicamente i grossi cambiamenti sono avvenuti ogni volta che le persone sono passate da circostanze comode a scomode, dal conforto allo sconforto. La sorveglianza è insidiosa, anche quella aziendale. Chiedo sempre a tutti: che cosa sa Google di noi? O Facebook? Nessuno sa rispondere precisamente. Quello che ci viene detto è incompleto. Quando fai una ricerca su Internet, quelle parole sono registrate per sempre ed è la stessa cosa per tutti i siti. Alla Silicon Valley usano il temine “frictionless”, senza attrito, cioè comodo, senza problemi, ma quello che in realtà significa è celare le conseguenze, nascondere i costi e farti sentire al sicuro anche quando ti stanno danneggiando». Una volta, Edward, hai detto che il vero valore di una persona non si misura dai valori in cui sostiene di credere, ma da che cosa è disposto a fare per proteggerli. Non senti di non praticare i tuoi valori vivendo in Russia, un Paese che viola i diritti umani, un regime che risponde a un unico uomo e a uno strettissimo gruppo di oligarchi, dove i tribunali e i processi sono costruiti per impartire condanne e assoluzioni? «Molti dimenticano che non è stata una mia scelta vivere in Russia. Ero a Hong Kong in viaggio verso l’America latina quando il governo americano mi ha annullato il passaporto e sono atterrato in Russia. Di sicuro avrei potuto collaborare con la Russia e dire che questo era il posto più sicuro del mondo per una persona come me e mi avrebbero accompagnato in limousine fino all’hotel, ma ho rifiutato quel trattamento. Mi è costato molto negli anni. Sono stato intrappolato in quell’aeroporto per circa 40 giorni. Quando ero lì ho fatto domanda di asilo in 27 Paesi nel mondo, inclusa l’Italia, ma anche Francia, Germania, Norvegia: i Paesi che immaginiamo rispettino i diritti umani. Ma ogni volta che si arrivava alla decisione e pensavamo fosse una decisione positiva, i miei legali sentivano che una di “quelle due persone” aveva chiamato i ministri degli Esteri di quei Paesi, e quelle due persone erano John Kerry, il segretario di Stato o il vicepresidente Joe Biden. E così ero intrappolato. Non sapremo mai perché i russi mi lasciarono uscire dall’aeroporto, ma la verità è che non sapevano cosa fare perché al momento ero l’uomo più ricercato al mondo. Ora non ho più scorta, agenti di protezione, vado in metropolitana, prendo il taxi e pago l’affitto come chiunque altro. È una situazione rischiosa e non ne ho il controllo, ma la realtà è che il motivo per cui mi va bene vivere così, nonostante sia frustrante – per quanto io abbia criticato il governo russo per le sue politiche di sorveglianza, per la gestione delle elezioni politiche, per come vengano effettuate e abbia supportato le proteste –, è che se qualcuno mi fa qualcosa, se il governo americano o i loro amici provassero ad uccidermi, confermerebbero la mia teoria, perché io non ho fatto nulla per danneggiare il mio governo. Volevo aiutarlo. Ciò che ho iniziato a fare, con questo lavoro di giornalismo, non è un atto di rivoluzione, ma un atto di ritorno agli ideali degli Stati Uniti. Tutto il mondo ha sempre creduto che fossero gli Stati Uniti a proteggere i dissidenti. Che cosa accade quando notiamo di vivere in un mondo in cui un dissidente deve essere protetto dagli Stati Uniti?». L’Europa ha perso un’occasione unica rifiutando l’asilo politico a Snowden; avrebbe potuto dimostrare il diverso approccio nel dare sicurezza ai cittadini. Se Paypal, Facebook, Apple, Microsoft nascono negli Usa, è anche perché l’Europa non ha considerato una sfida alla sua altezza avere delle proprie piattaforme, ma è chiaro anche quanto poco riesca a preservare spazi di diritto e di scambio dentro un perimetro di libertà. «Noi siamo vicini di età e, considerata la nostra situazione, è quasi ironico: entrambi siamo stati in esilio e visto da un punto di vista storico, l’esilio è una cosa terribile. Nella letteratura italiana e nel passato, essere in esilio era quasi peggio della morte. Sei tagliato fuori dalla famiglia, dalla società, dalla vita intellettuale, dalla lingua. Ma siamo qui a parlarne. Non hanno vinto…». Vero… ti trovo pieno di speranza. Anche il tuo libro lo è. «Sai, l’oppressione politica ha strumenti che iniziano a non funzionare più. L’esilio non riesce a fermare più una conversazione. Se mi chiedi se ho una vita felice, nonostante tutto quello che ho passato, nonostante i sacrifici che anche tu hai dovuto fare,ti rispondo che in verità sto meglio ora di quando sono uscito allo scoperto, perché almeno ora posso credere nelle cose che faccio». Ti sei mai pentito? «Rimpiango di non essermi fatto avanti prima». La tua famiglia è con te? Temi per i tuoi familiari? «Io sono minacciato da una parte che impone su se stessa delle restrizioni etiche, per cosi dire. La mafia può toccare i familiari, il governo non può. La mia famiglia non ha dovuto vivere altre conseguenze se non quella di essere preoccupati per me, abbiamo ancora un rapporto molto stretto. È stata di grande consolazione». Vorresti tornare negli Usa? «Sì, e vorrei che mi fosse concesso un giusto processo, di essere giudicato secondo la legge. L’Espionage Act del 1917 (della cui violazione Snowden è accusato) in realtà non era stato creato per fermare le spie, ma per fermare la resistenza politica. Credo però che questa legge non durerà. Penso anche che anno dopo anno, tutte le accuse che mi sono state fatte crolleranno sempre di più». Dopo la pubblicazione di questo libro aumenteranno i guai… «Non ho fatto quel che ho fatto per avere amici. L’ho fatto perché penso che le cose in cui crediamo contino. Ma contano soltanto in relazione a ciò che siamo in grado di rischiare per esse. L’unica cosa su cui posso contare, pensando al mio futuro, è la mia compagna Lindsay». Sto per salutare Edward Snowden e lo ringrazio per la sincerità delle sue risposte e la profondità non scontata, ma lui continua… «Non so chi vivrà più a lungo tra noi due…». E allunga un sorriso tenero da bimbo. Per esorcizzare mi giro e faccio una foto, un selfie di me con Edward dietro, sullo schermo. Lui sorride e aggiunge: «Sapevo che avrei sempre lavorato con i computer ma non avrei mai immaginato di vivere dentro un computer». Click.