Sergio Rizzo

Et quidem, cum fortiter adversa vela ventis. “E anche con venti avversi coraggiosamente navigheremo”: traducono così l’iscrizione in latino sul bordo della fontana della Rosa dei venti che guarda il mare dal borgo nuovo. Mai a Taranto i venti sono stati così avversi. Soprattutto quando soffiano sulle case del quartiere Tamburi dall’Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa. Spargono una polverina rossastra che penetra ovunque. Si deposita sui guard rail, imbratta i marciapiedi, avvolge le case. Con il tempo sono state ridipinte con tutte le gradazioni dall’arancio al granata. Perché prima o poi la polverina se ne sarebbe comunque impadronita. Hanno chiamato lo slargo dirimpetto “Piazza Gesù divin lavoratore”, per via di una brutta chiesa tirata su quasi insieme all’Italsider. Sulla porta d’ingresso, una scritta: “Si entra in chiesa per lodare Dio, si esce per amare il Prossimo, la Natura e il Lavoro”. E la Salute? Quando nel 2012 i giudici sequestrano gli altoforni, il limite è superato da un bel pezzo. Nel 2010 Alessandro Marescotti di Peacelink denuncia: «I morti di cancro sono raddoppiati. Stando alle proiezioni dell’Arpa Puglia sulle rilevazioni del febbraio 2008 l’area a caldo emette tanta diossina quanta Spagna, Svezia, Austria e Gran Bretagna messe insieme». Mentre una relazione dell’Inail sulle neoplasie a Taranto rivela che «nel quartiere più prossimo all’area industriale si rilevano valori di mortalità quasi tripli». Dati così allarmanti da indurre l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini, sempre sette anni fa, a ipotizzare l’evacuazione di Tamburi. Necessaria «anche perché sono state autorizzate costruzioni nuove sempre più vicine al parco», spiega. «Peccato che le case fossero già qua all’inizio degli anni Sessanta, quando hanno fatto l’Italsider. Mia madre abitava qui», ricorda oggi Mirko Maiorino, operaio cassintegrato dell’Ilva e militante del Comitato dei Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti che vive a Tamburi. Ridotto ormai a deposito di rifiuti, il campo di calcio del quartiere dove un tempo giocavano i ragazzi confina con le cosiddette “collinette ecologiche”. Secondo una relazione dei carabinieri del Noe che a febbraio scorso le hanno sequestrate sono “una enorme discarica abusiva di rifiuti industriali che, esposti all’azione degli agenti atmosferici, hanno riversato nell’ambiente circostante sostanze altamente tossiche e cancerogene”. Il simbolo del fallimento Non c’è al Sud simbolo più clamoroso del fallimento di un modello di sviluppo inseguito per decenni. Il Quarto centro siderurgico arrivò a Taranto all’inizio degli anni Sessanta, ha spiegato in un bellissimo articolo del 2016 lo scrittore tarantino Alessandro Leogrande, quasi a furor di popolo: “Chiesero in massa la manna dal cielo di decine di migliaia di posti fissi sotto le ciminiere”. L’allora sindaco democristiano Angelo Monfredi l’ha spiegato in seguito meglio di tutti: «Lo avremmo costruito anche al centro della città». Ma al centro non c’era posto, così alla città l’acciaieria gliela fecero addosso. E crebbe fino a 1.500 ettari: cinque volte l’area dell’impianto siderurgico di Bagnoli. Crebbe senza alcuna precauzione, come scrisse nel 1971 Antonio Cederna sul Corriere della Sera: “Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di 2 mila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”. Né ci avrebbe per i successivi 48 anni e le relative traversie, dalla cessione alla famiglia Riva a prezzi stracciati, fino all’arrivo di ArcelorMittal. Salvo poi fare i conti con il tragico dilemma: il lavoro o la morte? «Quanto sia preoccupante la situazione – secondo Marescotti – lo dice il divieto regionale di pascolare gli animali nelle aree incolte in un raggio di 20 chilometri dall’Ilva». Dove però, pensate, si continua a coltivare uva, clementine e arance. Nemmeno una forchetta L’Ilva ha cambiato in modo violento la geografia della città, trasformandola in un agglomerato enorme e indistinguibile di periferie. Dove si sono accatastati negli anni i mostri più inquinanti che si specchiano in un mare di sconvolgente bellezza. Davanti all’Ilva ecco la gigantesca raffineria dell’Eni, poi un immenso cementificio. E altro che cattedrali nel deserto. A Taranto l’autostrada non ci arriva. Non c’è una tangenziale. Durante il giorno nella stazione ferroviaria non si vede anima viva, perché non ci sono treni. Per la capitale parte solo una freccia al giorno. Quanto ai collegamenti aerei, manco a parlarne. Con il paradosso che a venti chilometri c’è a Grottaglie un polo di industrie aeronautiche con tanto di aeroporto: ma dove atterrano solo componenti per il montaggio delle fusoliere Boeing. Mentre nella più grande città industriale del Sud la disoccupazione non molla la presa. L’acciaio non è servito, anche perché l’indotto che si è assiepato intorno all’Ilva è solo appalti di servizi. Nessuna ricaduta industriale. «Con tutto quell’acciaio, a Taranto non si fabbrica una forchetta», dice Michele Riondino, il “giovane Montalbano” che è il volto più noto della rivolta dei Liberi e Pensanti. Perfino la mammella della Marina militare si sta prosciugando. E la gente va via. Negli ultimi quattro anni Taranto ha perso 5.314 abitanti, il 2,63% della popolazione, senza contare gli emigrati che hanno tenuto la residenza. Il piano regolatore del 1974 prevedeva un’espansione a 370 mila abitanti, oggi sono 196 mila. Il naufragio della politica E il momento di pagare il conto arriva sempre, come sanno bene anche i sindacati. «La questione ambientale si intreccia inesorabilmente con quella del lavoro e il lavoratore oltre alla salute rischia anche il posto. La verità è che questo modello di sviluppo ci ha condannati per sessant’anni, senza che nessuno abbia mai pensato davvero a una strategia alternativa. Neppure negli ultimi sette anni dal 2012, quando la crisi ambientale è esplosa», dice il segretario della Fiom Cgil di Taranto, Giuseppe Romano. Ma l’Ilva non è solo il fallimento di un modello di sviluppo. E’ il naufragio della politica. Il Movimento 5 Stelle aveva dichiarato guerra all’acciaieria: diceva di volerla chiudere e cavalcando l’onda di protesta alle politiche era arrivato al 48%. Ma poi ha fatto retromarcia e alle europee ha perso 30 mila voti. I consiglieri comunali grillini si sono dimessi dal Movimento. E agli eletti pugliesi in parlamento è stato appioppato il marchio di traditori. Massimo Battista, operaio cassintegrato, è passato al gruppo misto del Comune senza rimpianti: «Ci hanno sommersi di bugie». Bruciano le promesse non mantenute, ma ancor di più, aggiunge Riondino, il fatto che «i Cinque Stelle pugliesi si siano piegati al diktat del movimento nazionale», tanto che «dopo aver detto in tutti modi che l’immunità penale per i reati ambientali dell’Ilva era inaccettabile, si sono piegati anche a quella…». È il naufragio della politica, vecchia e nuova. La nuova incapace di mantenere le promesse. La vecchia incapace perfino di farle. Capace invece, quello sì, di peggiorare una situazione già esplosiva. Come quando nel 2005, ribolle di rabbia Battista, «chiusero l’altoforno di Cornigliano perché inquinava Genova e l’hanno portato qui, dove ce n’erano già quattro. Come se i tarantini respirassero un’aria diversa da quella dei genovesi». L’incognita del futuro Quel che è certo, l’Ilva è l’ultima sfida. La più pericolosa. Per il capo della Fiom locale «la chiusura non è all’ordine del giorno. Il tema è come rendere questi impianti eco-compatibili. Ma prima ancora lo Stato deve prendere una decisione: l’Italia vuole e può fare a meno della siderurgia?». Marescotti invita a riflettere sul fatto che le bonifiche si dovranno comunque fare, «con costi a carico della collettività». Costi enormi, mentre il destino dell’Ilva resta appeso a un filo. I dipendenti della gestione ArcelorMittal oggi in servizio sono ormai 8.190, più 1.400 in cassa integrazione. La produzione è circa metà di quella che servirebbe per produrre utili consistenti. Danno la colpa alla crisi, ma l’idea che chi ha messo le mani sull’Ilva l’abbia fatto per chiuderla levando di torno un concorrente continua a ossessionare i Liberi e Pensanti. Sarà. L’esempio di Bilbao Da qualunque punto si osservi la faccenda, la domanda è comunque ineludibile: per quanto ancora si potrà andare avanti? Di sicuro c’è che le acciaierie in città hanno fatto il loro tempo, come dimostra Bilbao. Dove la fabbrica è stata chiusa e dopo la bonifica l’area è stata trasformata in un grande parco urbano, di fronte al quale hanno piazzato un museo Guggenheim: nel 2017 l’hanno visitato un milione 322.611 persone. A Taranto, invece, la Taras della Magna Grecia, un museo c’è già. È il Museo archeologico di Taranto, dove sono custoditi fra l’altro i preziosi e famosissimi “Ori”. Nello stesso anno, dicono i dati del ministero, ha avuto 79.606 visitatori, di cui 29.051 paganti. Ma con la cultura, diceva qualcuno, non si mangia… (3-Continua)