Sergio Rizzo
E pensare che c’è ancora chi si ostina a chiamarla Questione meridionale: definizione coniata a quanto pare nel 1873 da un certo Antonio Bilia, deputato della sinistra nato a Udine. Perché se da un terzo del Paese sono scappate dal 2000 a oggi due milioni di persone di cui metà giovani e la prospettiva è di perdere entro il 2065 altri 5 milioni di abitanti e il 40 per cento della ricchezza, con l’industria che intanto si desertifica, non può essere che una Questione nazionale. Accettare che il Sud possa morire equivale ad accettare che l’Italia possa morire. Nessuno se lo può augurare. Ma il problema, a dispetto delle ipocrite dichiarazioni di circostanza, è che sta accadendo. Lo scenario che descrive la Svimez diretta da Luca Bianchi, e di cui l’attuale ministro del Mezzogiorno Giuseppe Provenzano è stato il vice, fa rabbrividire. La povertà cresce, la disoccupazione galoppa con quella femminile doppia rispetto al Centro Nord e superiore perfino a Guyana francese e Macedonia, l’economia è in recessione. Oggi il prodotto interno lordo medio procapite al Sud è pari al 55,2 per cento del resto d’Italia, un divario addirittura più ampio di quello del 1953 (era il 55,3), e l’emigrazione è tornata ai livelli di quegli anni: con la differenza che ora a fuggire sono i giovani laureati. Senza prospettive né speranze. Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (Bis) ha detto che per colmare il divario occupazione con il Centro Nord ci sarebbe bisogno di tre milioni di posti di lavoro. L’unica cosa che per ora il governo di Giuseppe Conte (Uno) è riuscito a produrre è il reddito di cittadinanza. L’avevano presentato come la panacea non solo per la povertà ma anche per la disoccupazione. Purtroppo non è andata così. Se per un’area depressa il reddito di cittadinanza, dice la Svimez, è stato comunque utile, l’impatto sulla disoccupazione è risultato «nullo, in quanto la misura, invece di richiamare persone in cerca di occupazione, le sta allontanando dal mercato del lavoro». Un flop clamoroso. La verità è che manca la visione che è sempre mancata. E anche il nuovo potere finisce per ripercorrere le stesse strade del passato, lastricate di clientele e contributi pubblici. Senza riuscire a immaginare modelli di sviluppo diversi da quelli fallimentari di una industrializzazione forzata e sussidiata, priva di industrie a valle, priva di infrastrutture, destinata a produrre sviluppo effimero. Così come era accaduto nei decenni dell’acciaio di stato ed era stato replicato nell’epoca dei Riva, neppure negli ultimi sette anni, da quando il bubbone dell’inquinamento dell’Ilva di Taranto è scoppiato, è stata affacciata una parvenza di soluzione credibile di lungo periodo, un’alternativa di sviluppo e sostenibilità. Che avrebbe certo avuto bisogno di tempo, ma anche di qualcuno che l’avesse pensata, discussa, elaborata. E ora siamo arrivati al dunque. Come già nel Sulcis, in Sardegna. O a Termini Imerese, in Sicilia. E quasi ovunque in tutto il Sud. Dove si continua a mettere pezze sempre più piccole, con progetti che evaporano, investitori che si dileguano, e promesse buone solo per le campagne elettorali che sfociano regolarmente in cassa integrazione. O in alternativa, adesso, nel famoso reddito di cittadinanza. Che altro serve perché in una nazione sviluppata come dovrebbe essere la nostra l’intera classe dirigente si faccia finalmente carico con serietà di una situazione così allucinante? Che altro deve accadere perché comprendano che è finito il tempo delle parole ed è in gioco il futuro stesso del Paese?