Sergio Romano

Dieci anni fa Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro della Turchia, era uno degli uomini politici più stimati d’Europa. Sapevamo che veniva dalle file di un partito islamico (Giustizia e Sviluppo), tradizionalmente contrario alle riforme con cui un militare, Kemal Atatürk, aveva trasformato l’Impero Ottomano, dopo la fine della Grande guerra, in una Repubblica laica. Sapevamo che negli anni in cui era stato sindaco di Istanbul aveva recitato pubblicamente una poesia in cui vi erano versi infuocati: «Le moschee sono le nostre caserme. I minareti sono le nostre baionette. Le cupole sono i nostri elmetti. I fedeli sono i nostri soldati. Allahu akbar. Allahu akbar Dio è grande, Dio è grande». Dovette fare dieci mesi di prigione per incitamento all’odio religioso e fu costretto a dimettersi prima di completare il mandato. Ma tornò in campo con le elezioni politiche, ebbe un grande successo, divenne presidente del Consiglio e successivamente capo dello Stato. Sembrava essere diventato un altro uomo. Sapevamo che detestava la casta militare del Paese (tradizionale custode della laicità kemalista) e che non avrebbe esitato a sbarazzarsene non appena gli fosse stato possibile. Ma non potevamo ignorare che era stato liberamente scelto dai suoi connazionali e che sembrava deciso a modernizzare la Turchia per farne, nel nuovo clima politico creato dal crollo dell’Urss e dalla fine della Guerra fredda, un rispettato membro dell’Unione Europea. Per raggiungere questo scopo era aiutato da un eccellente ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu , deciso a instaurare buoni rapporti con tutti i Paesi della regione.Oggi il quadro è cambiato. Erdogan continua a governare il Paese, ma con uno stile che è diventato sempre più dittatoriale e vendicativo. È sempre il leader di un partito islamico, ma il suo principale avversario è un imam, Fetullah Gülen, che vive negli Stati Uniti, ha un largo seguito in Turchia e sarebbe responsabile, secondo Erdogan, del colpo di Stato che ha cercato di detronizzarlo nel luglio 2016. Non possiamo escluderlo, ma Erdogan ne ha approfittato per scatenare una gigantesca epurazione. Credo che le ragioni di questo mutamento siano almeno due. In primo luogo la maggioranza dell’opinione pubblica europea ha chiuso alla Turchia la strada che le avrebbe permesso di entrare nell’Ue. Evidentemente siamo pronti a pagare perché la Turchia trattenga i migranti sul suo territorio ma non intendiamo spingerci sino a farne un membro della famiglia. E poi le guerre americane e le rivolte arabe, in una regione che fu per molto tempo ottomana, hanno reso il Medio Oriente instabile e la Turchia più nazionalista. Non è più quella in cui avevano riposto fiducia e speranze, ma ne abbiamo bisogno e saremo costretti, almeno per il momento, a convivere con il suo ambizioso leader.