Stefano Cappellini
Matteo Salvini ha provato sulla sua pelle cosa significhi un Parlamento in grado di fermare i piani plebiscitari di un singolo leader. Prendo tutto io — “pieni poteri”, li aveva definiti il leader leghista — è un obiettivo incompatibile con una democrazia degna di definirsi tale. Il piano è saltato, per ora. Ma Salvini non è domo e il suo ultimo rilancio non è meno pericoloso del precedente. Grazie all’iniziativa di cinque Regioni governate dal centrodestra, e alla sudditanza di una Forza Italia in piena sindrome di Stoccolma, quella che spinge il prigioniero a tifare per il suo carceriere, ora c’è in campo un referendum sulla legge elettorale. Il quesito sarà depositato in Cassazione lunedì e l’obiettivo è noto: abrogare la quota proporzionale per trasformare il Rosatellum, il sistema oggi in vigore, in un maggioritario puro. Ovviamente l’ultima parola spetta alla Corte costituzionale, che dovrà valutare se il quesito è ammissibile. Ma intanto la miccia è accesa. E lo scoppio, nel caso, sarebbe forte. La tempesta perfetta è legata a questa catena di eventi: il Parlamento approva il taglio dei parlamentari da 945 a 600. La Corte costituzionale dà il via libera al referendum della Lega. Nelle urne vincono i sì. Alle prossime elezioni si vota con un maggioritario puro. Risultato: una coalizione con il 40 per cento dei consensi — traguardo alla portata di un centrodestra a trazione salviniana — può trovarsi a controllare l’80 per cento degli eletti, e anche più. Un Parlamento monocolore potrebbe eleggere a proprio piacimento il capo dello Stato, controllare tutte le nomine istituzionali e garantire al potere esecutivo un ferreo controllo anche su quello legislativo e giudiziario. Una vera dittatura della maggioranza, senza alcun vincolo e contrappeso, pericolosa non solo in caso di vittoria delle forze sovraniste e orbaniane ma chiunque andasse al governo. Questo scenario, per fortuna, non è ancora una condanna certa. Siamo ancora a una catena di “se”, il primo dei quali è il tutt’altro che scontato via libera della Consulta al referendum leghista. Ma è già un bel guaio che sul futuro della democrazia italiana si ammassino minacce causate dalla spregiudicatezza con la quale la politica tutta sta maneggiando una materia così delicata. Le regole, sancite dalla Carta o dalle singole leggi, sono il pilastro della cosa pubblica. I partiti, non da oggi, si muovono invece per cambiarle seguendo solo la logica della propaganda e della convenienza. La riforma che taglia il numero dei parlamentari, obiettivo che non ha in sé nulla di scandaloso, ne è una prova evidente. Il M5S è preoccupato solo di portare a casa lo scalpo della casta, inverando lo slogan “meno politici” ed esultando con l’unico argomento senza pertinenza quando si parla di buon funzionamento delle istituzioni: il risparmio di soldi pubblici. Il Pd ha accettato di convergere sulla riforma, dopo aver fin qui sempre votato no in aula, senza aver incassato certezze sui correttivi necessari a non minare il sistema. E mentre la maggioranza procede su binari paralleli, Salvini estrae dal cilindro un referendum il cui esito è funzionale solo alla sua ansia di riprendere il controllo del Paese. Come già Matteo Renzi, punta tutto su un referendum che, di fatto, diventerebbe un’altra consultazione “o con me o contro di me”. A Renzi non ha portato bene, sebbene lo stesso ex leader del Pd rimproveri oggi a Salvini di non aver sposato le sue riforme maggioritarie (forse senza rendersi conto che dire al leader della Lega qualcosa che in sostanza suona “pensa come ti saresti trovato bene con la mia riforma” non è un gran messaggio per chi, come Renzi, si vanta di averlo mandato a casa). Il taglia e incolla delle riforme populiste — il secco colpo di scure del M5S al Parlamento del M5S e le elezioni come un giro di roulette sognate da Salvini — rischiano di essere un colpo di coda del fu governo gialloverde. In questa giostra di azzardi non si può sperare solo nel ruolo della Corte costituzionale o nella vigilanza del Colle. Servirebbe un sussulto da parte di quella maggioranza che si è formata per non consegnare il Paese al salvinismo ma che, proprio per questo, dovrebbe dimostrare un diverso rispetto delle istituzioni e del loro fragile equilibrio.