Stefano Feltri

Tre governi stanno chiedendo il permesso a Facebook di spiare tutte le nostre comunicazioni. Per il nostro bene, ovviamente, “dobbiamo trovare il modo di bilanciare le esigenze di proteggere i dati con la necessità per le agenzie di sicurezza di accedere alle informazioni di cui hanno bisogno per investigare crimini commessi e e prevenire quelli futuri”, scrivono a Mark Zuckerberg il ministro della Giustizia americano William Barr, quello dell’Interno degli Stati Uniti e quello dell’A ustralia. LA QUESTIONE è delicata: da mesi Zuckerberg sta progettando il nuovo universo Facebook, quello che integrerà i social che ha acquisito, inclusi WhatsApp e Instagram. Dopo gli scandali sulla diffusione a parti terze dei dati degli utenti, Zuckerberg ha promesso più privacy per tutti, con l’esten – sione della criptazione end-to-end delle comunicazioni a tutti i servizi. Tradotto: come su WhatsApp, i messaggi devono diventare visibili soltanto al mittente e al destinatario ma l’infrastruttura che permette lo scambio, non deve poterli leggere. Per Zuckerberg è un sacrificio necessario: forse non potrà succhiare preziose dati dalle comunicazioni (come fa Google da GMail), ma ha la garanzia di non essere responsabile del contenuto. Ora che le bacheche di Facebook sono in declino come strumento di condivisione di notizie, sempre più informazione e disinformazione passa per i gruppi di WhatsApp. E non è una svolta rassicurante: a febbraio teorie del complotto e fake news diffuse via WhatsApp dopo un attacco terroristico in India hanno causato 30 morti. Nessuno controlla, nessuno può rimuovere i messaggi fasulli o pericolosi, come fa con dubbia legittimità Facebook dalle bacheche. Zuckerberg ha l’esigenza di prendere le distanze da quello che succede sulle sue piattaforme, la cosa che gli interessa è che noi non possiamo andarcene altrove: tutti devono restare nella galassia Facebook, anche pedofili e terroristi (che comunque potrebbero sempre trovare altri servizi di messaggistica ancora più riservati, è la risposta ai critici). FACEBOOK DA TEMPO non è più un’azienda normale, sta diventando qualcosa di simile a una infrastruttura (poco) regolata e a un ente regolatore esso stesso. I suoi piani per una moneta parallela, Libra, rendono evidente che Zuckerberg si sente a capo di uno Stato 4.0 molto più che di una start up troppo cresciuta. I governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia stanno provando a sfruttare quello che un polveroso filone di teoria economica considera il lato positivo del monopolio: se c’è una sola azienda molto grande, per la politica è più facile trattare con chi la dirige e trasmettere i propri input alla società. Magari i consumatori ne risentono, ma nel lungo periodo il mondo è più ordinato e sicuro che se ci fosse un mercato selvaggio fuori dal controllo dei governi. C’è una gigantesca falla in questa teoria, evidente proprio dal caso Facebook: quando il monopolista accumula troppo potere, è la politica a dover obbedire. O almeno è costretta a chiedere permesso. A noi cittadini, utenti e impotenti, si prospettano due sole opzioni, una peggiore dell’altra. Primo scenario: Facebook si piega alle richieste dei governi e Zuckerberg, l’Fbi, la Cia, l’Nsa, il Mi-6 britannico potranno decidere se e quando violare la nostra privacy. Secondo scenario: sarà l’ex studente di Harvard Mark Zuckerberg a decidere le politiche di sicurezza anti-terrorismo e anti-pedofilia, mentre i governi eletti dai cittadini assisteranno passivi. C’è un’alternativa? L’unico modo è intervenire alla fonte del problema, l’eccessiva estensione dell’influenza di Facebook. L’errore della politica è stato permettere che una sola azienda acquisisse società potenzialmente concorrenti per consolidare la sua presa su miliardi di persone. Le autorità Antitrust americane non hanno avuto da obiettare quando Zuckerberg ha comprato WhatsApp e Instagram perché una vecchia teoria, tanto influente quanto superata, della “scuola di Chicago” dice che finché i prezzi non salgono per il consumatore finale la politica non deve ostacolare le imprese. Nel mondo digitale le cose sono più complicate. La senatrice democratica Elizabeth Warren, sempre più vicina a diventare la sfidante di Donald Trump alle elezioni 2020, ha un piano per smantellare i colossi del digitale, a cominciare proprio da Facebook, costringendoli a vendere rami d’azienda per riportare la concorrenza in un settore dove ormai ci sono soltanto monopoli e cartelli. In un audio diffuso dal sito The Verge, Zuckerberg annuncia una guerra legale contro la Warren e si dice pronto anche “ad andare ai materassi”. Strategie legittime, se non fosse che Facebook, WhatsApp e Instagram sono anche le infrastrutture di comunicazione da cui passerà gran parte della campagna elettorale del 2020. L’arbitro, in questa partita, sta dicendo di tifare contro una delle due squadre in campo. E la cosa che teme di più non è un governo ostile, ma il mercato. QUESTA TENSIONE tra grande impresa, governi democraticamente legittimati e diritti dei cittadini è la grande questione del nostro tempo. Il fatto che lo scontro sia soprattutto negli Stati Uniti non deve darci l’impressione sbagliata: anche il futuro della democrazia italiana dipende dall’esito di questo scontro epocale tra poteri e diritti.