Stefano Folli
Nessuno può sapere con certezza se il Parlamento deciderà di amputarsi in modo definitivo di 345 deputati e senatori. Forse sì, nonostante i malumori diffusi, visto che il Pd e anche il partito di Renzi, dopo essersi sempre opposti al taglio, voteranno a favore, in omaggio alla “realpolitik” che li ha condotti all’accordo di governo con i Cinque Stelle. Comunque sia, l’ultimo voto è il più a rischio: si cammina sul filo. Ma non solo per il contestato disegno di legge costituzionale, al quale non fa da corollario alcuna intesa sulle altre riforme indispensabili per dare un senso allo strappo.
Ad esempio la sfiducia costruttiva, come propone Luciano Violante, oltre a una legge elettorale che non sia iniqua. Si procede lungo un sentiero stretto soprattutto perché i rapporti nella maggioranza sono rapidamente peggiorati. E negli ultimi giorni anche la posizione del presidente del Consiglio si è fatta instabile. Dipende dalla frenesia del Matteo Renzi pre-Leopolda, certo. Ma dipende allo stesso modo da eventi imponderabili che richiamano l’attenzione sul clima poco limpido in cui è maturato l’esecutivo Conte 2, con riflessi che oggi potrebbero minarne la navigazione. Si può riassumere così. Esiste un cerchio largo di interessi politici – dal Pd al premier in carica – che punta a frenare Renzi, la cui fama di destabilizzatore mai domo è ormai non scalfibile. Nella sua campagna mediatica incessante, il politico di Rignano tenta di distinguere tra le critiche alla politica economica e fiscale del governo (rivendicate) e la volontà di mettere in crisi Palazzo Chigi (smentita). È probabile che sia così, al di là delle apparenze, perché Renzi non può permettersi di correre il rischio di elezioni anticipate. Ma resta il fatto che l’astio tra lui e Conte ha ormai raggiunto e superato la soglia di sicurezza. Al punto in cui siamo, è poco verosimile che s’individui un punto di equilibrio in grado di coinvolgere e pacificare Renzi per i prossimi due o tre anni. Magari favorendo il suo ingresso nel governo in un ruolo adeguato. D’altra parte esiste un secondo cerchio in cui la vittima è proprio Conte, un uomo dall’ascesa fin troppo rapida. Prima “l’avvocato del popolo” ha fatto da cassa di compensazione tra partiti rivali, come Lega e 5S. Oggi, nel nuovo quadro, l’operazione gli riesce meno e la contesa con Renzi su Iva e cuneo fiscale lo dimostra. In tutto questo, ecco il cigno nero, l’evento imprevedibile. Non è usuale che un leader di maggioranza – sempre Renzi – chieda al premier di abbandonare la delega con cui controlla i servizi segreti. È un atto di solenne sfiducia aperto a ogni conseguenza. Sullo sfondo ci sono i contatti che Conte è sospettato di aver favorito tra un emissario di Trump e i nostri servizi. Il che rimanda ad altri interrogativi ugualmente opachi, fondati su voci e insinuazioni: Renzi ha incoraggiato a suo tempo giochi di servizi miranti a compromettere Trump sui rapporti con la Russia, così da aiutare Obama in funzione filo-Clinton? Non si sa e comunque è una vicenda che deve essere chiarita. È invece del tutto credibile la frattura politica rispetto agli Stati Uniti: Conte si è inventato con successo come uomo di Trump; Renzi è legato a Obama e a un certo establishment che oggi sostiene Biden. Due mondi opposti, due sistemi di relazioni che si riverberano sugli assetti di casa nostra e li rendono incerti.