Stefano Folli

Non è la prima volta che un governo di coalizione boccheggia davanti agli scogli della legge di bilancio, come insegna la storia della Prima e un po’ anche della cosiddetta Seconda Repubblica. E non è la prima volta che le settimane di fine anno si annunciano tormentate, quando il testo del faticoso compromesso (ieri sera in alto mare) arriverà in Parlamento. Tuttavia è la prima volta che un esecutivo appena nato — meno di due mesi fa — risulta essere così sfilacciato, privo di qualsiasi collante politico, non diciamo di un’idea condivisa del futuro. È il suo vizio d’origine, essendo nato unicamente per evitare le elezioni e guadagnare tempo. Ora invece la realtà impone i suoi diritti, mentre anche l’Unione compie i consueti passi volti a conoscere il senso e le coperture di una manovra confusa: segno che la benevolenza europea, di cui qualcuno si dichiarava sicuro in cambio della cacciata di Salvini, si sta esaurendo in fretta. Lo psicodramma che si vive in queste ore equivale a un brutto film in cui recitano Pd e 5S, con il contorno dell’estrema sinistra e l’ambiguo ruolo dell’astuto Renzi che prima ha spinto Zingaretti e Di Maio all’accordo intorno al nome di Conte e poi si è affrettato a mostrarne i limiti: impresa fin troppo facile, come indicano le cronache. L’inverno della legge finanziaria è oscuro, senza un vero guizzo capace di dare speranze a un Paese stagnante e decadente. È più che altro un gioco propagandistico tra forze che si rivolgono ai diversi segmenti elettorali in cui pescano il loro consenso. Un’operazione in cui il Pd è più abile ed esperto, mentre i 5S temono di restare indietro e perciò rilanciano con un Di Maio in crescente affanno. Si è scritto giustamente degli intrighi in atto contro il premier Conte. Ma a questo punto, di fronte allo sfarinarsi dei rapporti politici e al logorio del governo, la vera domanda da porsi riguarda l’immediato futuro: che senso ha proseguire con un’agonia che potrebbe accentuarsi tra una settimana dopo il voto in Umbria se a prevalere fosse il centrodestra? Finora le parole d’ordine della maggioranza hanno ricalcato le ragioni per cui è nato il Conte 2: niente elezioni altrimenti vince Salvini. Solo Zingaretti un paio di giorni fa ha buttato lì un accenno («se il governo cade andiamo alle elezioni con Conte candidato premier») che era più che altro un monito ai destabilizzatori, da Renzi a Di Maio, e un modo per far sapere che il presidente del Consiglio è ormai nell’orbita del Pd. In ogni caso, l’argomento “altrimenti vince Salvini” rischia di mostrare la corda. Avrebbe un senso se il patto Pd-5S più LeU e Italia Viva includesse una prospettiva di recupero nell’opinione pubblica, così da prevedere tra un anno un allargamento del consenso ai danni del centrodestra più o meno unito. In caso contrario, la rinuncia a un chiarimento all’interno della coalizione — quel chiarimento che era da fare all’indomani della secessione di Renzi — espone il centrosinistra al pericolo di una sconfitta ancora più grave. Invece l’azzardo di nuove elezioni nel 2020 come alternativa al logoramento potrebbe risolversi in una battaglia elettorale aperta a tutti gli esiti. Purché ovviamente si metta in campo una squadra di alto livello e qualche idea nuova. L’altra strada è lasciare a Renzi la regia della legislatura, compresa l’elezione del capo dello Stato nel ’22.