Stefano Passigli

L’Italia ha avuto in 15 anni cinque diverse leggi elettorali, sino a oggi tutte caratterizzate da un mix di proporzionale e maggioritario. Perché allora si vuole oggi tornare alla proporzionale? La risposta di Lega e FdI è che così si vuole colpire le possibilità di vittoria del centrodestra; in maniera speculare — potremmo notare—a quanto il centrodestra fece a danno del centrosinistra alla vigilia delle elezioni del 2006. Motivo sufficiente questo per introdurre il divieto di cambiare la legge elettorale almeno nei 12 mesi che precedono una elezione, e perrespingere il ricorso a referendum che, non limitandosi ad abrogare norme esistenti e introducendo una nuova legge elettorale, sono a rischio di inammissibilità. In realtà, una modifica dell’attuale legge elettorale è imposta dal taglio del numero dei parlamentari: riducendo a 200 i senatori, nella metà delle Regioni nessun partito che non consegua almeno il 15% del voto potrà essere rappresentato, con una fortissima compressione della rappresentanza a rischio di incostituzionalità. In ben sei Regioni neanche il terzo partito sarà rappresentato. Si aggiunga che anche l’elezione del presidente della Repubblica verrà alterata dal modificato rapporto tra ilridotto numero dei parlamentari e l’invariato numero degli elettori indicati dalle Regioni. Vi sono tuttavia ragioni più profonde che trovano fondamento nella stessa teoria democratica, concorde nell’affermare che i sistemi maggioritari sono adatti solo a Paesi a forte coesione sociale e privi di conflitti politici fondamentali. I sistemi maggioritari tendono infatti a esasperare il conflitto: se un collegio può essere vinto anche per un solo voto,ese quindi a livello nazionale poche migliaia di voti possono determinare profonde differenze in seggi tra maggioranza e opposizione, lo scontro politico non può che essere durissimo perché il vincitore «takes all». Se il sistema politico prevede inoltre un ampio ricorso allo spoil system, il vincitore non consegue solo la maggioranza parlamentare, ma «prende tutto» anche nel sistema amministrativo, nelle Autorità indipendenti, nelle imprese pubbliche, e così via. Nei sistemi proporzionali, invece, proprio la distribuzione proporzionale dei seggi rende lo scontro meno acceso, anche se obbliga a governi di coalizione. Il maggioritario si presta dunque a sistemi ove maggioranza e opposizione sono unite sui principi fondamentali dell’ordinamento e sulle politiche di governo di lungo termine, e si riconoscono quella reciproca legittimità che è fondamento della democrazia dell’alternanza. Se un Paese è invece profondamente diviso, leggi elettorali proporzionali consentono più facilmente di raggiungere quel minimo di consenso politico e di integrazione sociale che ne assicurano la governabilità. Quest’ultima infatti non va confusa con l’esistenza di stabili maggioranze parlamentari: un sistema maggioritario può assicurare una maggioranza parlamentare, ma questa non è garanzia che le sue decisioni trovino consenso nel Paese. La Francia testimonia ampiamente il possibile iato tra maggioranze parlamentari e consenso popolare. E nel Regno Unito la vicenda Brexit conferma che nemmeno il maggioritario garantisce la permanenza di partiti e maggioranze coesi. Nemmeno il doppio turno offre più garanzia di stabilità: nell’uninominale francese 4 partiti sono ricompresi in poco più del 3%; pochi fautori del doppio turno resterebbero tali se i ballottaggi avvenissero tra Mélenchon e Le Pen. E neanche il premio di maggioranza implicito nel sistema spagnolo permette più una sicura governabilità. Quanto all’Italia, l’opinione pubblica ha spesso attribuito l’instabilità che ha caratterizzatoigoverni al loro essere frutto di coalizioni. Non è così. In almeno due momenti fondamentali della nostra storia élite politiche fieramente contrapposte trovarono una aggregazione dando vita prima alla Costituzione, e poi all’unità nazionale contro il terrorismo. Di fronte ai gravi problemi odierni l’Italia deve ritrovare questi momenti di unità. La scelta di ritornare alla proporzionale, corretta con soglie di sbarramento e sfiducia costruttiva, appare così giustificata, purché si aboliscano le liste bloccate tornando a dare ai cittadini la possibilità di scelta dei propri rappresentanti, in collegi uninominali previe primarie regolate per legge, o con il voto di preferenza. L’opzione maggioritaria che si traduce nel «winner takes all» non è saggia in un sistema afflitto nuovamente da forti conflitti. Una conferma che la democrazia è indebolita da tali conflitti viene da uno dei più interessanti politologi, Arend Lijphart, e dalla sua teoria della «democrazia consensuale». Quando le divisioni nella opinione pubblica sono troppo profonde, è compito delle élite sanarle governando assieme, in un regime di democrazia che anziché chiamare spregiativamente «consociativa»efondata su «inciuci», potremmo appunto definire «consensuale». Compito delle élite è unire il più possibile un Paese, non dividerlo. È questo un insegnamento da non dimenticare quando si guardi all’attuale situazione italiana.Èimportante che a quanti fondano le proprie fortune elettorali su appelli divisivi si sostituiscano leader responsabili dediti a promuovere un consenso sociale più ampio di quello fondato su promesse irrealizzabili (flat tax), o su temi emotivi (gli immigrati), e mobilitazioni al limite della xenofobia («prima gli italiani»). Il nostro Paese ha già pagato in passato un prezzo molto altoaquesto mix di ideologia e promesse illusorie.