Tommaso Labate
«Io avevo accuratamente evitato di tirare fuori l’argomento quando ho incontrato Mike Pompeo proprio perché adesso il dossier è nelle mani di Giuseppe Conte e perché la mia fiducia in lui è piena. Però il programma degli F-35 va senz’altro rivisto, rimodulato. Perché…». Dietro il disappunto che Luigi Di Maio affida ai fedelissimi ieri mattina — quando la rivelazione del Corriere della Sera sulla promessa del presidente del Consiglio italiano al segretario di Stato statunitense («rispetteremo gli accordi sugli F-35») è già rimbalzata di chat in chat fino a far salire all’inverosimile la temperatura del confronto interno — c’è la marea montante che rischia di riaprire una ferita mai cicatrizzata nel Movimento 5 Stelle. Un malessere che in serata costringe il presidente del Consiglio Giuseppe Conteafare marcia indietro rispetto alle rassicurazioni forniteaMike Pompeo con una stringata nota di Palazzo Chigi per dire che «il premier è d’accordo sulla rinegoziazione» degli F35. L’atlantismo dei pentastellati non è oggetto di dibattito come lo sarebbe stato un tempo e nessuno, men che meno nella robusta delegazione di governo, si sogna di metterlo in discussione oggi. E non tanto, o non solo, perché l’ormai celebre endorsement di Donald Trump a «Giuseppi» Conte rappresenta ancora un passepartout di prestigio per il neonato governo giallorosso in campo internazionale; quanto perché, in tempi di guerra dei dazi, aprire un altro fronte con gli Stati Unitirischia di portare più costi che benefici. Ma la ferma opposizione all’acquisto degli F-35, come aveva ben sperimentato l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta durante l’avventura del precedente esecutivo, fa parte di quel bouquet storico di proposte del Movimento che scalda ancora il cuore della base. Se non ai livelli della Tav, giusto un gradino sotto. E l’apertura messa a verbale dal presidente del Consiglio durante l’ultimo incontro ai massimi livelli con gli Usa — incastonata nella complessa trattativa che riguarda, oltre ai dazi, anche il 5G — riesce a provocare una mezza rivolta. Rivolta a cui dà voce a metà pomeriggio, dopo che per tutta la giornata la brace della ribellione s’è alimentata sotto la cenere, il capogruppo M5S in commissione Esteri del Senato, Gianluca Ferrara. «Il Movimento5Stelle ha sempre criticato il programma militare che, così com’è, ci indebiterebbe di almeno 50 miliardi di euro per i prossimi quarant’anni». Secondo l’esponente pentastellato, da sempre termometro degli umori dell’ala ortodossa del Movimento, aggiunge poi che «un ridimensionamento di acquisto consentirebbe di liberare miliardi di euro da investire in scuole, ospedali, trasporti pubblici. I cittadini ci chiedono questo, non bombardieri strategici con capacità nucleare». Eccolo, il punto. L’incrocio del dossier F-35 con la legge finanziaria. La paura, insomma, che mentre altre forze di governo (leggasi, Italia viva) puntano a lucrare consensi nel Paese smarcandosi sistematicamente da Palazzo Chigi, il M5S finisca schiacciato in quella posizione di «partito responsabile», per giunta su un tema che non scalda certo i cuori dell’opinione pubblica. «Non possiamo fare il Pd della situazione», ammette a denti stretti un big vicino a Di Maio. Il capo politico tenta una mediazione che giocoforza lo allontana dalla linea del premier. E così lo scontro inizialmente sottotraccia viene in superficie. «Chi ci ha fatto entrare in questo programma (degli F35, ndr) dovrebbe essere preso a calci in c…o. È sempre la stessa storia. Ci fanno entrare in programmi fallimentari, poi ci dicono che sono sbagliati ma è tardi per uscire perché i costi sarebbero esagerati. Sono vili traditori della Patria, sono i cosiddetti esperti che danno degli inesperti ai portavoce5Stelle», scriveva nell’agosto del 2017 Alessandro Di Battista. Non poteva immaginare, all’epoca, che qualche mese dopo il Movimento sarebbe finito al governo con la Lega, che un anno dopo sarebbe nato un nuovo governo col Pd, che i due governi si sarebbero schierati a favore degli F-35 e che lui sarebbe rimasto fuori da entrambi. A osservare gli altri sostenere la tesi governista dell’«è tardi per uscire». Dalla Tav, dalla Tap, così come dagli aerei promessi l’altro giorno da Conte agli Usa.