Valentina Maglione & Giorgio Vaccaro

Tra marito e moglie che si lasciano non bastano lo squilibrio economico e il reddito alto di uno dei due per far scattare l’assegno di divorzio. Non è infatti accettabile l’idea che il più ricco debba pagare al più debole tutto quanto sia per lui sostenibile: così l’assegno diventerebbe quasi un «prelievo forzoso» in misura proporzionale ai redditi. Lo scrive la Cassazione che, con tre sentenze depositate il 7 ottobre scorso, ridefinisce le caratteristiche e i confini dell’assegno di divorzio, di fatto sottolinendo che il parametro principale per attribuire e quantificare l’assegno debba essere quello dell’autosufficienza economica. L’evoluzione Il percorso è iniziato più di due anni fa, quando la Prima sezione della Suprema corte, con la sentenza 11504 del 2017 (relatore Lamorgese) relativa al divorzio tra l’ex ministro Vittorio Grilli e Lisa Lowenstein, ha superato il criterio del tenore di vita, adottato fino a quel momento per determinare l’assegno. I giudici hanno infatti ricordato che la legge sul divorzio riconosce il contributo al coniuge che «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive». Dal 1990, il parametro per valutare l’adeguatezza dei mezzi è stato individuato proprio nel «tenore di vita» analogo a quello che si aveva durante il matrimonio. Ma si tratta di un criterio, che, a distanza di 27 anni, la Cassazione abbandona: è, in sostanza, una forzatura della norma, fatta perché, nel 1990, il matrimonio era ancora inteso in senso «patrimonialistico», come «sistemazione definitiva», e occorreva prevedere una tutela per la sua fine. Oggi, invece, scrivono i giudici, il matrimonio è un «atto di libertà e di autoresponsabilità» e un «luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile». L’assegno di divorzio, quindi, non deve essere riconosciuto per “prolungare” gli effetti patrimoniali del matrimonio ma solo quando l’ex non è «economicamente indipendente» o non è effettivamente in grado di esserlo. Un parametro netto, su cui la Cassazione (questa volta a Sezioni unite) è tornata l’anno dopo con la sentenza 18287 del 2018. I giudici hanno affermato che per attribuire e quantificare l’assegno di divorzio occorre individuare un «criterio integrato», fondato sulla «concretezza e la molteplicità dei modelli familiari attuali». Non c’è, quindi, solo l’aspetto assistenziale, ma anche la funzione perequativo-compensativa. Questo significa che occorre tenere conto non solo dell’indipendenza economica (o della possibilità di conquistarla) ma anche del contributo fornito dal coniuge più debole economicamente a formare non solo il patrimonio comune ma anche quello dell’altro coniuge; l’intenzione è quella di salvaguardare la posizione del partner (spesso la moglie) che rinuncia a prospettive di lavoro e di carriera per occuparsi della famiglia e lasciare invece più libero l’altro coniuge (tipicamente il marito) di realizzarsi professionalmente. Le indicazioni delle Sezioni unite sono confluite in una proposta di legge presentata da Alessia Morani (Pd): già approvata alla Camera, è ora assegnata alla commissione Giustizia del Senato (atto 1293), ma la ripresa della discussione non è in calendario a breve. Le ultime precisazioni Ad aggiungere altri tasselli per costruire la nuova identità dell’assegno di divorzio è ancora la Prima sezione della Cassazione, con le sentenze 24932, 24934 e 24935, depositate la scorsa settimana. In particolare le pronunce (il relatore è sempre Lamorgese) ribadiscono che il criterio-guida per attribuire l’assegno di divorzio deve essere quello dell’«indipendenza economica»: la sentenza a Sezioni unite del 2018 – affermano – non ha sovvertito questa interpretazione, ma l’ha solo in parte corretta. Così, per la Cassazione, l’assegno di divorzio deve mantenere soprattutto una funzione assistenziale, per aiutare l’ex non autosufficiente. Può inoltre essere riconosciuto solo nei casi in cui vi sia la prova – che deve essere fornita da chi chiede l’assegno – che il divario tra i redditi di marito e moglie sia «direttamente causata» dalle scelte di vita concordate tra i due e che comportano che un coniuge abbia sacrificato le sue aspettative professionali e reddituali per dedicarsi interamente alla famiglia, contribuendo in modo decisivo a formare il patrimonio comune e quello dell’altro coniuge. Occorre, quindi, valutare con attenzione le prove fornite e il contributo dato. Mentre non basta – precisano i giudici – lo squilibrio economico tra i coniugi e il fatto che uno sia più ricco dell’altro. Le sentenze bocciano l’idea che l’ex benestante debba pagare all’altro «tutto quanto sia per lui sostenibile o sopportabile», facendo diventare l’assegno quasi un «prelievo forzoso» proporzionale ai redditi.