Alle cinque della sera è ricominciato tutto come prima: ognuno per conto suo. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nello studio giallo di palazzo Chigi si è visto prima con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e poi con quello dell’Interno Luciana Lamorgese per una prima chiacchierata sui rispettivi dossier, ma in quegli stessi minuti, a cinque chilometri di distanza, nel palazzo della Farnesina, il neo-ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha “apparecchiato” una riunione di partito: si è visto con gli altri 9 ministri Cinque stelle. E non si è limitato ad incontrarli riservatamente: lo ha fatto sapere alle agenzie di stampa. Come dire: rieccoci, ci siamo e, sia chiaro, i miei li comando sempre io. In politica, si sa, a volte i segnali immateriali possono essere più importanti delle parole. Dalla Farnesina Di Maio ha spedito tanti messaggi in codice. Ha riunito i ministri di un solo partito, come appartenessero ad un “sub-governo”, esattamente come si faceva nell’ultima stagione del Conte-1, quella che ha preceduto l’infarto della maggioranza giallo-verde: leghisti da una parte, grillini da un’altra. E Di Maio ha riunito significativamente i suoi proprio nel primo giorno di vita del nuovo governo e lo ha fatto in un palazzo, chiamato ad ospitare diplomatici, ambasciatori e ministri degli Esteri di tutto il mondo. E alla fine della riunione Di Maio ha detto ai suoi: «Ci rivediamo qui la prossima settimana per programmare tutta la nostra azione di governo». Ma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è fatto un’idea diversa su quel che dovrà essere il cammino del nuovo governo, come ha ripetuto in queste ore: «Dobbiamo evitare certi errori del passato, puntare ad un leale collaborazione, per un lavoro di squadra, senza invasioni di campo». Parole analoghe le ha dette ai propri ministri, mentre quel che Conte ancora non ha detto pubblicamente è un altro concetto, che gli ha suggerito anche Federico Fornaro, capogruppo di Leu, in uno dei tanti incontri riservati a palazzo Chigi: «Presidente, lei lo sa bene: il governo-collage alla lunga non ha retto, l’errore è stato alzare ognuno la propria bandiera, anziché cercare un compromesso alto su ogni provvedimento». E infatti nel discorso col quale chiederà la fiducia in Parlamento, il presidente del Consiglio affermerà il proprio ruolo, sottolineando una sorta di primato: «Io sono il garante ma anche il primo responsabile del governo». Lunedì 9 settembre il presidente del Consiglio leggerà alla Camera il suo discorso programmatico che per una serie di ragioni assumerà un valore speciale: il discorso di Conte costituirà anche il programma dei primi cento giorni del governo. Conte chiederà a Bruxelles di «allargare i margini di flessibilità» ma al tempo stesso si impegnerà a non sfondare i parametri essenziali. Sul piano fiscale annuncerà che si accantona ogni velleità di flat tax con l’adozione del cuneo fiscale, dunque un taglio delle tasse del lavoro, ma soltanto sul versante dei lavoratori, non delle imprese. Sulla delicatissima questione dei migranti, che tanti consensi ha portato a Salvini, Conte si muoverà con prudenza. Da una parte intende andare incontro alle istanze della Chiesa – che lo ha silenziosamente appoggiato nella sua permanenza a palazzo Chigi – e di una parte della sinistra che chiede la fine della stagione dei porti chiusi, ma al tempo stesso non vuole regalare ulteriori consensi alla Lega. I porti formalmente non sono stati mai chiusi, Conte deciderà come calibrare le espressioni, ma la parola-chiave potrebbe essere quella adottata dalla nuova ministra: «Serve umanità». In politica estera si torna a quello che Conte chiamerà «l’orizzonte euroatlantico», dunque nessuna sbandata rispetto all’alleanza storica con gli Stati Uniti. A riprova, la telefonata di auguri arrivata ieri da Trump, dopo la quale sono iniziati i contatti diplomatici per un incontro bilaterale a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.

«E ditemi: cosa farà Renzi?». Dopo averlo chiesto ai dirigenti del Pd, dopo aver cercato di capire attraverso i suoi compagni di partito quali potrebbero essere le mosse dell’ex premier, alla fine Conte ha deciso di cercarlo. Se è vero infatti che il presidente del Consiglio ha un modo «arzigogolato» di esprimersi, se è vero che «nelle discussioni è un personaggio sfuggente e difficile da afferrare» — come ha raccontato Zingaretti dopo averlo conosciuto — c’è un motivo se invece è stato diretto nel porre la domanda su Renzi. Perché Renzi agli occhi di Conte rappresenta la variabile indipendente della maggioranza e insieme un’incognita che potrebbe alla lunga determinare le sorti del suo governo. E dunque non gli basta, non gli può bastare l’analisi che ha ascoltato dai dirigenti del Pd: la tesi cioè che l’ex segretario dem non abbia molti margini politici di manovra; il fatto che nei sondaggi — nonostante il ruolo avuto nella crisi — non sia mutato il suo basso indice di gradimento; la convinzione che la nascita di un suo partito non avrebbe oggi grande seguito nell’opinione pubblica e soprattutto nei gruppi parlamentari, specie dopo la nomina di Guerini a titolare della Difesa. Troppe teorie e nessuna certezza.

Invece Renzi è fonte di preoccupazione per il premier. E chi lo conosce scorge nel suo periodare una latente forma di ossessione. Perché nonostante Renzi sia fermo, Conte lo vede in movimento. Malgrado Renzi abbia assicurato un rapporto «non conflittuale», Conte lo immagina intento a organizzare un cambio in corsa a Palazzo Chigi che non interrompa però il corso della legislatura. Perciò deve cercare di gestire il rapporto con il suo predecessore, che sarà più complicato e meno lineare di quello già difficile con Di Maio. L’idea che Renzi possa aver barattato «l’ora X» con i due ministri di riferimento che siedono in Consiglio, non gli passa nemmeno per la testa. Nell’ultima e convulsa fase della definizione della squadra, Conte non ha smesso di monitorare le mosse dell’ex premier, la tattica adottata, il cambio all’ultimo momento dei suoi candidati che assomigliavano a pedine di un gioco imperscrutabile.

Non lo preoccupavano le liti che erano scoppiate nel Pd, l’accesa contestazione di Delrio che accusava Zingaretti di una suddivisione iniqua degli incarichi ministeriali. Conte teneva sempre gli occhi su Renzi. E a Renzi aveva pensato anche nei giorni in cui aveva discusso il programma con i dirigenti democrat, mentre i nuovi alleati gli spiegavano con fare didascalico il cuneo fiscale e l’impatto che avrebbe avuto il suo taglio sulle imprese. Il premier, che è meticoloso, sta tentando di programmare tutto. Per esempio sa che non ci saranno soldi per la Finanziaria e che per il taglio dei parlamentari i grillini non vogliono andare oltre il prossimo trimestre.

Per evitare i tafferugli della scorsa esperienza gialloverde ha persino codificato le regole dei Consigli in giallorosso, stabilendo che sui temi politici parleranno solo i capi delegazione dei due partiti.

Ma il futuro non può prevederlo. E nel futuro c’è anche Renzi, che forse romperà presto o forse lo farà nel giro di sei mesi. Per capirlo, Conte ha deciso di cercarlo.

Fosse rimasto in buoni rapporti, avrebbe potuto chiedere al leader della Lega. «Salvini — come rivela un ex ministro del Carroccio — si sentiva spesso con Renzi, anche mentre eravamo al governo». Tra i due c’era un patto: dividersi le spoglie del Movimento. Ma il patto prevedeva che la legislatura sarebbe continuata, e quando il ministro dell’Interno ha chiesto il voto, l’altro Matteo si è sentito sciolto dall’accordo. «E ci ha fregati».