Dopo tre mesi trascorsi a Poggioreale il manager russo Alexander Yurievich Korshunov, accusato di spionaggio industriale da un tribunale dello Stato americano dell’Ohio, può lasciare il carcere. La Corte d’appello di Napoli gli ha concesso gli arresti domiciliari, con divieto d’espatrio e obbligo del braccialetto elettronico; non nella suite del Relais di piazza Plebiscito inizialmente proposta, bensì in una casa dove siano più agevoli i controlli di sicurezza. Lì attenderà l’esito della «guerra fredda» tra Stati Uniti e Federazione russa che, intorno al suo nome, si sta combattendo in Italia a colpi di domande di estradizione. Già, perché a chiedere la consegna di Korshunov non sono solo i giudici dell’Ohio, ma anche quelli del suo Paese. Un mandato d’arresto emesso dal tribunale del quartiere Basmannyj di Mosca è stato infatti notificato alle autorità italiane. Un provvedimento che seppure possa essere considerato un atto a protezione del cinquantasettenne ex funzionario diplomatico ai tempi dell’Unione Sovietica, in favore del quale s’è speso il presidente Vladimir Putin in persona, l’ha trasformato in un imputato conteso tra le due Potenze mondiali. Con arbitri tutti italiani: prima i magistrati partenopei e poi il governo di Roma. Le due procedure giudiziarie sono entrambe in corso, ma con una differenza non irrilevante: all’estradizione in Russia, dove dovrebbe essere processato per l’appropriazione indebita di 150 mila euro, Korshunov ha accordato il proprio consenso, pur proclamandosi innocente; e i giudici non hanno potuto che prenderne atto, trasmettendo il fascicolo al ministero della Giustizia, dove il ministro Alfonso Bonafede potrebbe già firmare il provvedimento. Alla richiesta statunitense invece il manager s’è opposto, e il suo avvocato italiano Gian Domenico Caiazza tornerà a farlo nell’udienza fissata per venerdì 6 dicembre, dopo aver contestato la competenza americana su un presunto reato commesso da un cittadino straniero in territorio italiano (Torino, Forlì o Roma). Ma la Procura generale di Napoli ha già sollecitato l’estradizione, e se la corte dovesse concederla toccherà al governo decidere a chi restituire l’ingombrante detenuto. Varrà il principio cronologico di chi l’ha reclamato prima (gli Usa), quello che favorisce il Paese di appartenenza (la Russia) o quale altro criterio per sciogliere l’imbarazzante enigma politico-giudiziario-diplomatico? Tutto ruota intorno all’accusa mossa a Korshunoveal suo presunto complice italiano Maurizio Paolo Bianchi, di avere ««cospirato e tentato di rubare segreti commercialiriguardanti progetti, procedure e disegni aeronautici» di proprietà della General electric aviation (che ha sede nell’Ohio) e della sua filiale italiana: la Avio Spa, con sede a Torino, dove lavorava Bianchi. Il quale avrebbe arruolato alcuni dipendenti o ex dipendenti di Ge e di Avio, attraverso la società forlivese Aernova, per acquisire elementi utili al completamento del programma russo Pd-14 per lo sviluppo di un motore a reazione per nuovi aerei. Da riversare poi al colosso moscovita Odk, controllato dallo Stato, di cui Korshunov era dirigente. Per gli americani è il passaggio di una sfida commerciale a livello mondiale, che i russi avrebbero truccato grazie ai segreti di Ge rubati da Bianchi e i suoi «ragazzi»; alcuni dei quali hanno confessato le presunte malefatte raccontando all’Fbi i contatti e gli incontri con Bianchi e Korshunov. Attraverso la società Aviadvigatel, una filiale della Odk di cui Korshunov è stato direttore del marketing. Ma il manager russo racconta tutt’altra storia, che ripeterà venerdì ai giudici napoletani: lui, con Aviadvigatel, aveva stipulato un contratto di consulenza con la Aernova di Bianchi, e non è a conoscenza di quello che l’italiano può aver fatto con gli impiegati di Ge e Avio (peraltro indicati anonimamente, nelle note dell’Fbi che li ha chiamati Dipendente 1, Dipendente 2, ecc.). È ciò che aveva sostenuto Putin quando, all’indomani dell’arresto di Korshunov all’aeroporto di Capodichino, protestò per «l’atto ostile» nei confronti della Russia: «Abbiamo firmato un contratto con una società italiana per delle consulenze; è una pratica naturale in tutto il mondo, non abbiamo bisogno di rubare nulla». I 150 mila euro inizialmente pattuiti tra Aviadvigatel e Aernova sono ora il valore dell’appropriazione indebita contestata a Korshunov in patria, ma quel mandato d’arresto ha tutto l’aspetto di una ciambella di salvataggio lanciata per riportarlo a casa senza danni. Di cui probabilmente tornerà a parlare con il governo italiano il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, atteso in visita a Roma giovedì 5 dicembre. Due mesi fa, quando in Italia sbarcò il segretario di Stato Mike Pompeo, fu chiesto e ottenuto nel giro di poche ore l’arresto di Maurizio Bianchi (rilasciato in breve tempo, giacché s’era praticamente consegnato), che pure gli Usa vorrebbero estradareeprocessare; se ne dovrà occupare la corte d’appello di Roma. Un segnale di quanto possano pesare le pressioni statunitensi, che però mirano a Korshunov. Ora trattenuto da un braccialetto elettronico.

Richieste congiunte di «ricollocazione» dei migranti presentate all’Unione Europea. La svolta sulla distribuzione di chi sbarca in Italia arrivata dieci giorni fa — quando Germania, Francia e Malta hanno indicato a Bruxelles la cifra di stranieri che avrebbero accolto — è ormai operativa per tutti gli approdi delle navi. Vuol dire che nel momento in cui da bordo viene chiesto il via libera all’attracco nei porti, scatta la divisione per quote tra i governi. Una ripartizione preventiva che evita le estenuanti trattative condotte nei mesi scorsi quando il braccio di ferro con l’ex ministro Matteo Salvini le costringeva a stare per giorni in mezzo al mare. Risultato, esclusi minori e donne incinte: l’82 per cento di chi è già stato registrato andrà via. L’accordo—rimasto finora riservato anche per evitare l’ostruzionismo degli altri Stati Ue in attesa dell’insediamento della Commissione guidata da Ursula von der Leyen —èdunque «a regime». Agevolato certamente dal calo degli arrivi che in un anno sono più che dimezzati: dai 23.370 del 2018 si è passati ai 10.882 del 2019. Sono in aumento gli sbarchi autonomi, un fenomeno che rimane preoccupante anche perché le partenze sono dalla Libia, ma anche dalla Tunisia, però la cifra complessiva è al minimo rispetto agli ultimi quattro anni. E questo sta spingendo altri Paesi ad offrire la propria collaborazione, compresa la Spagna. I tre sbarchi Ong Dopo il patto siglato a La Valletta a settembre, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha continuato a tessere la tele dei rapporti bilaterali con i partner europei per renderlo stabile, ma soprattutto per far passare il principio che la distribuzione diventasse «automaticaepreventiva». Una richiesta accolta con freddezza da numerosi Stati del Nord Europa e definita «irricevibile» da quelli del blocco di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Slovacchia). Al fianco dell’Italia si sono invece schierati diversi Paesi e ciò ha consentito di raggiungere l’obiettivo per gli ultimi tre sbarchi delle navi delle Ong che hanno così ottenuto subito il Pos per entrare in porto e sono approdate. Il 24 novembre è giunta a Messina la Ocean Viking con 212 migranti, due giorni dopo la Open Arms ha portatoaTaranto 62 stranieri (11 erano stati prelevati prima) e sempre il 26 novembre la Aita Mari ha attraccato a Pozzallo con 78 persone. In tutti i tre casi è stato applicato l’articolo 80 del Trattato di fondazione dell’Unione che sancisce il principio di «solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri». Ed è scattata la divisione: la Germania ha accettato 69 richiedenti asilo, mentre 90 andranno in Francia. A loro si sono aggiunti la Spagna con 25 stranieri, il Portogallo 20 e l’Irlanda 6. Il percorso è avviato e adesso si sta trattando con Cipro, Lussemburgo e Grecia, ma anche con la Romania per ampliare la rosa di chi accoglie. Via 57 persone al mese Secondo i dati forniti dal Viminale «nel 2019 sono stati trasferiti con ricollocamenti 262 migranti, 172 di quali dopo il 5 settembre», dunque dopo l’insediamento del governo Conte2el’uscita di Matteo Salvini dal Viminale. Negli ultimi tre mesi «i trasferimenti con ricollocamento sono stati 172 (57 al mese) che comprendono anche le quote offerte precedentemente dai Paesi Ue». Una media molto più alta di quella registrata tra giugno 2018 e agosto 2019 quando «i migranti trasferiti con ricollocamento sono stati 238 (16 al mese)». Le cifre danno conto della situazione e soprattutto dei problemi da affrontare. Dopo la cifra record di 119.369 sbarchi nel 2017, il 2018 ha mostrato un drastico calo con 23.370 arrivi che si sono ridotti ulteriormente quest’anno con 10.882 stranieri registrati. Rimane però sempre alto il numero di chi arriva a bordo di gommoni e barchini direttamente sulle spiagge o nei porti. Se nel 2018 erano stati 5.999, negli ultimi undici mesi siamo già a 7.926 migranti.

Strano destino quello di Roberto Gualtieri, già europarlamentare Pd per dieci anni (dal 2009 al 2019) e poi ministro dell’Economia tra i più convinti europeisti, chiamato nei prossimi giorni a interpretareaBruxelles la parte del cattivo, che potrebbe far saltare la riforma del Mes, il fondo salva Stati, sulla scia della protesta populista contro la solita Germania e i soliti euroburocrati. Panni, quelli del cattivo, che Gualtieri proprio non immaginava di dover indossare. Tanto che mercoledì scorso, audito in commissione Finanze del Senato, aveva dato ormai per finita la partita del Mes: «Il testo è concordato e se chiedete se è possibile riaprire il negoziato vi dico che secondo me no, il testo è chiuso e così lo considerano tutti gli altri Paesi». Parole che invece hanno acceso la miccia delle opposizioni. Una mossa incauta per un ministro dell’Economia «politico», novità dopo molti predecessori tecnici. Ora Gualtieri e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sono infatti impegnati, dopo l’aut aut lanciato nella stessa maggioranza dai 5 Stelle, a tentare di riaprire la partita a Bruxelles, per salvare il governo a Roma. Il fatto è che Gualtieri, tecnicamente, è convinto che la riforma del fondo salva-Stati sia un buon compromesso, tutto sommato ben negoziato dal tecnico Giovanni Tria, suo predecessore. Il nuovo Mes, dice Gualtieri, non presenta rischi per l’Italia, tanto meno quello di facilitare la ristrutturazione del debito pubblico. E quindi sarebbe un errore far saltare l’intesa, per di più dopo il chiaro miglioramento dei rapporti con l’Ue conseguente al passaggio dal Conte 1 al Conte 2 (senza Lega). Ma, dopo che Lugi Di Maio ha scartato, la situazione è cambiata. E toccherà proprio a Gualtieri farsene per primo carico con Bruxelles: mercoledì nella riunione dell’Eurogruppo e giovedì all’Ecofin, che ha all’ordine del giorno proprio l’ultima valutazione sulla riforma del Mes prima che essa venga approvata dal Consiglio europeo del 13 dicembre. Il ministro terrà conto del mandato ricevuto nel vertice di ieri sera. Punterà i piedi sulla «logica di pacchetto», che lega il via libera al Mes al completamento dell’unione bancaria su regole diverse da quelle proposte dalla Germania. Ma dovrà, inevitabilmente, muoversi in un quadro in evoluzione. L’informativa del premier oggi in Parlamento non sarà infatti seguita da un voto. Cosa che invece accadrà dopo che lo stesso presidente farà le comunicazioni prima del Consiglio europeo, il 10 dicembre al Senato. Insomma, Gualtieri, senza un preciso mandato parlamentare, dovrà dimostrare di essere davvero un ministro «politico».

È appena il caso di ricordare in quali circostanze fu delineato il nuovo quadro del Meccanismo europeo di stabilità. Le modifiche al trattato sul fondo salvataggi, il Mes, furono varate all’incontro dei ministri delle Finanze dell’euro del 4 dicembre 2018. Che tipo di momento fosse quello lo ricordiamo tutti molto bene. A metà ottobre l’Italia aveva presentato un bilancio con aumenti di spesa corrente di oltre venti miliardi. La Commissione aveva respinto l’intero impianto, muovendo i primi passi formali di una procedura contro il Paese. Nella proposta del governo i mercati avevano visto la volontà di rischiare l’uscita dall’euro — a torto o a ragione — e avevano reagito di conseguenza. Solo nell’ultima settimana di novembre l’Italia avrebbe iniziato una ritirata per scongiurare una crisi e, al momento del primo accordo sul Mes, tutto era ancora sulla lama del rasoio. È in queste condizioni che il governo affronta il negoziato sul fondo salva-Stati. Non sorprende che la sua forza di persuasione non fosse smagliante. All’epoca una coalizione del Nord Europa insisteva perché il sistema prevedesse perdite automatiche sui creditori privati, prima che il Mes potesse salvare un Paese dai conti in disordine. Alla fine il compromesso non fu certo ideale per l’Italia ma, date le premesse, poteva andare peggio: esattamente come oggi, ci sarà discrezionalità politica in ogni passaggio prima di decidere se il Mes deve chiedere che un Paese da salvare imponga un default pilotato ai suoi creditori privati; in contropartita aumenta il potere del Mes stesso, un organo esterno all’Unione europea e di proprietà dei governi dell’euro nel quale si decide all’unanimità o lasciando diritto di veto (nei casi urgenti) solo a Germania, Francia e Italia. Parte dell’analisi per determinare se un Paese in crisi è insolvente — dunque deve fare default — viene infatti tolta alla Commissione Ue e data al fondo salva-Stati. Non una buona idea, data la natura diversa delle due istituzioni. Di fatto così i governi e parlamenti di Berlino, Parigi e Roma restano (lo erano già dal 2012) guardiani esclusivi dell’accesso di un Paese all’azione protettiva ad hoc della Banca centrale europea, dato che la Bce entra in gioco solo se c’è l’assenso del fondo salvaStati. Che può fare l’Italia adesso? Se il governo firma l’accordo europeo, rischia di cadere perché una parte del M5S dissente; se lo blocca rischia tensioni sui mercati del debito, perché gli investitori concluderebbero che una frangia di estremisti anti-euro hanno ancora il controllo di fatto del Paese. C’è però una terza via per l’attuale governo, che non ha concorso al negoziato: chiedere tempo in Europa per consultare il proprio Parlamento (Parigi e Berlino lo fanno regolarmente) e poi proporre una revisione che smascheri l’europeismo di facciata della Germania. L’Italia può subordinare il suo assenso alla promozione del Mes — con le regole attuali — al rango di vera istituzione europea che risponda solo al Parlamento di Strasburgo. Senza animali più uguali degli altri.

Tutte le economie mondiali sono in affanno. Tutte le democrazie occidentali sono in stallo. Ma nessuno sa fallire come noi. Nessuno sa naufragare con tanta rancorosa voluttà nel mare del Grande Declino. Tra mucche in corridoio, sardine in piazza e gattini sul web. Non bastava l’Ilva, non bastava il Mose. Adesso negli abissi del lassismo di Stato e del parassitismo di mercato sprofonda l’Alitalia. S i chiude così il triangolo della crisi: tre giganteschi fallimenti che certificano il collasso del Sistema-Paese. L’irresponsabilità delle sue classi dirigenti, la paralisi dei suoi meccanismi decisionali. Un quadro desolante: lo potremmo chiamare “L’allegoria del cattivo governo”. Governo della politica, dell’economia, del territorio. Governo della destra, della sinistra, del centro. Il caso Mose è l’infarto che colpisce il cuore del Nord. La marea sommerge Venezia, e con Venezia affoga una certa idea del “Paese che funziona”, “l’Italia che produce”. Lo hanno progettato negli anni ’80, lo ha avviato Prodi, lo ha varato Berlusconi, ha generato quattro inchieste giudiziarie, una settantina di arresti e 250 milioni di mazzette. Arriva l’onda, e tutti a chiedersi “che fine ha fatto il Mose”? A partire dai padani che lo benedissero, i Zaia e i Galan, e che non lo hanno mai finito. Ora scopriamo che per completare l’opera mancano gli ultimi 400 milioni, fermi “per intoppi burocratici”. E scopriamo che forse, una volta completato, non funzionerà: è vecchio e arrugginito. Ci è costato 7 miliardi. Il caso Ilva è la metastasi che avvelena il povero Sud. Anche qui, 25 anni di disastri. Svanito il sogno dell’acciaio tricolore di Oscar Sinigaglia, ecco l’Italsider che perde mille miliardi di lirette, la privatizzazione avviata da Amato e la vendita ai Riva perfezionata da Dini, il capitalista privato che spolpa Taranto ed esporta fondi neri. Poi il disastro ambientale, il cancro vero che uccide gli operai, il sequestro, i pm in fabbrica insieme ai commissari, la gara e l’ingresso di un altro capitalista, stavolta indo-francese, che approfitta della schizofrenia grillina sullo scudo penale per spegnere gli altiforni. Ora il premier giura «battaglia legale», M5S non sa che promettere, il Pd spera nella solita Cdp. Oggi Ilva perde 2 milioni al giorno. Tra 2012 e 2018 ci è costata 23,5 miliardi. Il caso Alitalia è il paradigma perfetto del velleitarismo del Centro Romano. La compagnia aerea più politicizzata della terra, dove i ministri hanno imposto per anni le rotte per santificare le feste nei rispettivi collegi elettorali. Per il resto, stesso copione. Mala gestione pubblica, pessima privatizzazione, un partner estero mai veramente ingaggiato tra Malev, Klm, AirFrance, manager fuggiti con bonus milionari nonostante conti in rosso fisso, ridicoli Piani Fenice usa-e-getta da campagna elettorale. Pure qui, inchieste, magistrature, e come sempre commissari, a suggellare il pasticcio dal quale adesso, dopo otto prestiti-ponte, si stanno sfilando tutti: Delta e Lufthansa, Atlantia e forse anche Fs. Alitalia perde 1 milione al giorno. Ci è costata 8,7 miliardi. Conte, Zingaretti e Di Maio continuano a dire «questo governo va avanti se fa le cose». Eccole qui, le cose da fare, che gli italiani osservano atterriti, nell’inutile alternarsi di coalizioni che spacciano il trasformismo per «cambiamento». Solo questo trittico fatale noi contribuenti l’abbiamo pagato 40 miliardi. Quasi 4 punti di Pil buttati via, tra assurdi spargimenti di carta bollata, totale latitanza di politiche industriali e sistematica alternanza di ammortizzatori e macellerie sociali. A suo modo, una “biografia della nazione”.

Che cosa avremmo potuto fare con i circa nove miliardi persi in questi anni dall’Alitalia e pagati in larghissima parte dai contribuenti? Ognuno di noi formuli un’alternativa. Siccome siamo in Italia, sarei pronto a scommettere che la maggioranza della classe dirigente (politica ma non solo) propenderebbe per un vantaggio immediato anziché destinare la cifra a un investimento futuro, come farebbe una normale famiglia o una qualunque azienda seria. Si parlerebbe di un tesoretto – definizione orribile per un Paese indebitato – e si alzerebbero tante mani di richiedenti tignosi, di finte vittime di ingiustizie, di constituency elettorali da accontentare, di settori avidi di sussidi. Un sussulto virtuoso potrebbe suggerire di ridurre le tasse ma si litigherebbe sui beneficiari reali impugnando le ragioni degli incapienti. Figurarci se poi qualcuno dicesse: impegniamo quei miliardi a riduzione del debito. Sarebbe scambiato per un cinico contabile dell’austerità. Escluso. Dunque, continuare a spendere, anche nella certezza di perdere, non suscita riserve, non genera polemiche. Ci sono i posti di lavoro. Già, ma li si difende veramente così o si prolunga soltanto l’agonia mettendoli ancora di più in pericolo? L’ennesimo prestito ponte alla compagnia aerea, una volta di bandiera (ma se fosse ancora così perché molte Regioni incentivano, giustamente dal loro punto di vista, i voli Ryanair o easyJet?) è destinato a essere inghiottito da un bilancio da troppi anni in rosso. C’è un problema di liquidità, innegabile, ma l’Alitalia perde circa mezzo miliardo l’anno. Si tira a campare, dando un calcio alla lattina, nella speranza che si trovi, tra rinvii, proroghe, misure ad hoc, un azionista stabile. I tentativi in passato sono stati numerosi, tra «capitani coraggiosi» — imprenditori italiani, investitori preterintenzionali e costretti per varie ragioni a intervenire—gli ineffabili arabi di Ethiad e via di seguito. L’americana Delta non vuol metterci più del 10 per cento a dimostrazione di un irrefrenabile entusiasmo a investire in Italia. Ritiratasi Atlantia, il resto dovrebbero farlo le Ferrovie dello Stato e il ministero dell’Economia. Insomma, la mano pubblica, cioè tutti noi. La tedesca Lufthansa, che vorrebbe prima una ristrutturazione con migliaia di esuberi, aspetta alla finestra. Ha il tempo dalla sua parte. Si rimpiangono vecchie occasioni. Quando si poteva dare tutto alla Air FranceKlm, che avrebbe pure pagato, ma si opposeroisindacati. È strategico avere un’industria dell’acciaio in un Paese a forte vocazione trasformatriceemeccanica. Non lo è tenere una compagnia di bandiera che ha ormai una quota di mercato interno di oltre il 30 per cento. Nonostante il prestigio, la qualità e il garbo di tantissimi dipendenti di Alitalia che ancora trattano i passeggeri come persone (grazie) e non come merce low cost. Prima o poi bisognerà fareiconti con la realtà. Salvare il salvabile. Accettareegestire al meglio una cura dimagrante. Più si rinvia più si paga. Cioè più pagano gli italiani che già contribuiscono, con un sovrapprezzo su ogni biglietto acquistato, a finanziare un fondo che ha reso possibile, con la ristrutturazione del 2008, uscite con l’80 per cento effettivo dell’ultimo stipendio e uno «scivolo» pensionistico di7anni. Condizioni che lavoratori di altri settori in crisi semplicemente si sognano. E agli imprenditori in difficoltà è assai improbabile che si concedano prestiti — come è accaduto per i 900 milioni assicurati durante la scorsa legislatura all’Alitalia — abbuonando gli interessi passivi. Si impone al contrario dirientrare subito nei fidi. Il nostro Paese è al primo posto di una classifica Ocse per i fondi devoluti a imprese decotte. Non è un caso. È un primato che dovrebbe sollevare qualche interrogativo. Cominciamo, almeno, a non chiamare più prestiti (e ponte: verso che cosa?) quelli che sono semplicemente fondi perduti. O meglio: perduti da tutti.

«Bisogna dichiarare lo stato di emergenza nazionale e muoversi con quelle leggi che proprio in virtù dell’emergenza, consentono di snellire le procedure per i lavori pubblici, in totale trasparenza. L’Italia ha bisogno di pianificare e fare le infrastrutture essenziali per la crescita, come stiamo facendo nella ricostruzione del viadotto sul fiume Polvecera a Genova. Là, nel giro di pochi mesi abbiamo fatto partire i lavori, che stanno andando avanti giorno e notte e finiranno in tempo. Abbiamo in Italia delle competenze uniche nel settore accumulate in decenni di esperienza ». Quella di Pietro Salini non è una voce qualunque, né ovviamente un’opinione disinteressata: 61 anni, amministratore delegato di Salini-Impregilo, la settimana scorsa ha portato a casa un passaggio decisivo per la creazione della principale multinazionale italiana nel settore delle grandi infrastrutture: un aumento di capitale da 600 milioni di euro, che ha visto entrare nel capitale di Salini-Impregilo la Cassa Depositi e prestiti, i pochi pesi massimi bancari nazionali come Intesa ed Unicredit, investitori nazionali e internazionali tra cui anche Leonardo Del Vecchio. «Ma per far ripartire il Pil in Italia – dice – bisogna far ripartire le grandi infrastrutture che il Paese ha abbandonato, per creare occupazione e crescita, e dare lavoro ai giovani cui manca un futuro, applicando anche in Italia quella tecnologia che stiamo utilizzando in tutto il mondo per consegnare alle comunità le infrastrutture di cui hanno bisogno nella vita di tutti i giorni. Il nostro Progetto Italia è proprio questo: riuscire a rimettere in piedi un settore e farlo diventare trainante per il Paese. Solo negli ultimi cinque anni, tra edilizia e grandi opere, abbiamo perso 600 mila posti di lavoro. Negli anni ’60 l’Italia è riuscita a costruire l’Autostrada del Sole in cinque anni, oggi per fare un tombino ce ne vogliono sei. Nel Sud Italia non ci sono prospettive di lavoro per nessuno. Ecco perché bisogna muoversi» . Addirittura lo stato di emergenza, dottor Salini? «Scusi, ma Venezia è sommersa dall’acqua, i ponti delle autostrade crollano, l’Italia è in ginocchio dal punto di vista delle infrastrutture, abbiamo un lungo elenco di opere importantissime bloccate. E non perché manchino i fondi, ma perché si sono impantanate nella palude della burocrazia che ha paura di fare, e il Pil non riparte. Che altro deve succedere? Sarò brutale, ma la situazione è questa e se non la si cambia il Paese affonda». Quale soluzione per Venezia? «Mi pare che il progetto Mose sia commissariato da tempo. Non mi sembra che questa soluzione stia dando risultati». Vi candidate a farlo? Ne avreste le competenze… «Assolutamente no. Abbiamo già molto da fare». E come si cambia, secondo lei? «A Genova sono in vigore le stesse leggi che valgono nel resto d’Italia. Ma la differenza è che là tutti – dal governo alle amministrazioni locali, dalla magistratura all’autorità per l’ambiente – sono uniti nel voler fare il nuovo ponte. Serve questa volontà comune, che deve partire dal fatto che le infrastrutture sono un fattore essenziale di sviluppo. È necessario, ad esempio, modificare il modo in cui sono fatti i contratti, che oggi addossano ai costruttori tutti i rischi, compresi quelli assolutamente fuori dal loro controllo, come i cambiamenti di norme che avvengono successivamente. La normativa deve cioè essere fatta per fare le infrastrutture non per bloccarle». Tanta diffidenza ha qualche ragione forse. Il passato degli appalti pubblici è tutt’altro che edificante. «Ma distruggere il settore delle costruzioni, come in buona parte si è già fatto, non risolve nulla. Anzi, aggrava la situazione. Ci sono stati casi di malaffare, come in tutti i settori, che vanno puniti, ma questo non significa colpevolizzare un’intera industria e farla morire, e con lei l’occupazione. Invece il Paese si è fermato in modo indiscriminato, con danni per tutti. Salini-Impregilo fa circa l’8%del fatturato in Italia, ma non perché vogliamo fare tutti i lavori all’estero, bensì perché l’Italia manca all’appello. Nel piano industriale che finisce quest’anno prevedevamo di realizzare 7 miliardi di fatturato a fine 2019. È mancata la parte italiana, ma continuiamo a crescere all’estero». Voi crescerete, ma intanto con l’aumento di capitale la Cdp vi ha versato 250 milioni. Che bisogno c’è, nell’anno di grazia 2019, di rivedere lo Stato costruttore? «La Cdp non è lo Stato. Se nel nostro capitale fosse entrato il Ministero dei Lavori pubblici le darei ragione. La Cassa è un investitore, che ragiona sul lungo periodo. Se investe nella nostra società lo fa perché vede un interesse finanziario, visto che deve remunerare il risparmio postale che le è affidato, che si coniuga anche al sostegno a un interesse collettivo, cioè alla ripresa dell’intero settore. E questo vale anche per altri investitori privati e per le banche, che si sono impegnate a seguirci dal punto di vista finanziario fornendo cassa e garanzie. Noi siamo sul mercato e la nostra è un’operazione di mercato. La mia famiglia, con l’aumento di capitale, ha investito 50 milioni e è scesa dal 75 al 45% del capitale». Intanto il salvataggio di Astaldi che vi apprestate a fare, primo passo di Progetto Italia, costa poco più di 220 milioni, mentre il vostro aumento è da 600 milioni. Perché? Avete trovato in questo modo la possibilità di mettere in sicurezza anche Salini-Impregilo? «Quei fondi sono necessari per far partire Progetto Italia e aggregare altri soggetti attorno ad esso. Astaldi è solo un primo passo..». Un gigante nella Lilliput delle costruzioni non suscita però grandi entusiasmi. Anzi, i piccoli costruttori riuniti nell’Ance spiegano che Progetto Italia è un grande rischio per la concorrenza… «Io penso invece che le imprese che fanno parte dell’Ance potranno avere vantaggio da questa operazione nel prossimo futuro». Lei pare molto ottimista. Forse troppo. «Solo quest’anno abbiamo coinvolto in progetti all’estero imprese fornitrici italiane di piccole e medie dimensioni per un miliardo di euro di ordini. E – me lo lasci dire – i costruttori dell’Ance non sono nostri concorrenti: noi facciamo gare internazionali alle quali loro non partecipano e loro si occupano di appalti per noi troppo piccoli». Resta il fatto che, anche con le migliori intenzioni dichiarate, la paura dei piccoli è che un soggetto troppo grosso possa costringerli ad esempio a condizioni capestro sui subappalti. «Noi viviamo sul mercatoe lavoriamo a condizioni di mercato. Non abbiamo nessun interesse ad imporre condizioni capestro, anzi la nostra strategia è quella di creare partnership e fidelizzare i nostri fornitori come partner di lungo periodo. Sono ottimista e sono sicuro che questa operazione industriale permetterà di nuovo al settore di riprendere a crescere creando occupazione. È ora di smetterla di parlare e di lamentarsi. È il momento di rimboccarsi le maniche e di fare ».

La Banca europea per gli investimenti ha approvato la nuova politica dell’energia, accelerando la fuoriuscita dalle fonti fossili da fine 2021. Con la decisione di non sostenere i progetti legati alle fonti fossili, incluso il gas, con l’eccezione degli impegni per la rigenerazione delle reti di distribuzione in chiave verde, e di orientare i finanziamenti all’innovazione e all’efficientamento energetico, si aggiunge così un tassello importante allo sforzo per la decarbonizzazione del sistema economico. Q uesto, nel quadro di una più generale strategia per il clima che permetterà di mobilitare risorse per oltre mille miliardi fino al 2030. Come ci ricorda la comunità scientifica, e come purtroppo le cronache di questi giorni ci confermano drammaticamente, il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050 costituisce un obiettivo imprescindibile se si vuole contenere il riscaldamento globale ed arrestare una deriva pericolosa e potenzialmente devastante sia per i suoi effetti graduali ma pervasivi (tra gli altri sulla salute, la produttività, la disponibilità idrica) sia per la maggiore frequenza e intensità degli eventi naturali estremi. Per questo il governo italiano ha votato a favore della nuova strategia della Bei ed è impegnato affinché il tema della sostenibilità ambientale sia al centro dell’azione delle istituzioni nazionali ed europee. L’obiettivo di neutralità carbonica entro il 2050 richiede impegni vincolanti e investimenti ingenti e deve avere a cuore tutte le dimensioni della sostenibilità. Modulare la transizione implica un processo di adattamento inclusivo, che minimizzi e assorba gli shock della riconversione tutelando il lavoro e accompagnando i processi di ammodernamento del sistema industriale verso l’impiego di un mix energetico capace di ridurre le emissioni. Siamo tra quanti hanno spinto perché la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen lanciasse un vero e proprio European Green Deal e ne sosterremo la definizione e l’implementazione richiedendo il giusto livello di ambizione. Al tempo stesso, con la manovra di bilancio abbiano lanciato un Green New Deal nazionale che collega l’aumento delle risorse per gli investimenti pubblici (7 miliardi aggiuntivi nel triennio) e per il sostegno agli investimenti privati (6 miliardi) agli obiettivi della sostenibilità ambientale e sociale, dell’innovazione e dell’economia circolare, nella convinzione che queste sfide siano anche un forte volano per la crescita, l’innovazione e l’aumento della produttività. Per questo, alcuni importanti strumenti di incentivo all’innovazione, come Impresa 4.0, vengono non solo rilanciati ma anche arricchiti in chiave verde e affiancati da nuove opportunità, come il credito di imposta per investimenti green. Il contrasto ai mutamenti climatici e la crescita sostenibile costituiscono al tempo stesso una necessità e una grande opportunità. Mettiamo questi temi al centro del dibattito nazionale e in vista della prossima conferenza sul clima e degli obiettivi più ambiziosi che ci troveremo ad affrontare facciamoci trovare pronti e rendiamo l’Italia e l’Europa protagoniste della sfida centrale dei prossimi decenni.

«Sono molto arrabbiata. Questa storia mi porterà dei danni. È evidente che ormai sono sotto attacco». Elisabetta Trenta risponde al cellulare alle 9.30 di domenica mattina mentre prepara il post da pubblicare su Facebook. «Devo chiarire, è tutto regolare». Vuol dire che rimarrà nell’alloggio che aveva da ministra? «Ormai la casa è stata assegnata a mio maritoein maniera regolare. Per quale motivo dovrebbe lasciarla?». E crede sia giusto tenerla? «Mi faccia spiegare. Non ho chiesto subito l’alloggio pur avendone diritto, ma soltanto nell’aprile scorso. Ho resistito il più possibile nel mio. Un ministro durante la sua attività ha necessità di parlare con le persone in maniera riservata e dunque ha bisogno di un posto sicuro». Lei ha una casa al quartiere Pigneto di Roma. Non poteva rimanere lì, sia pur con misure di protezione adeguate? «No, c’erano problemi di controllo e di sicurezza. In quella zona si spaccia droga e la strada non ha vie d’uscita. E poi io avevo bisogno di un posto dove incontrare le persone, di un alloggio grande. Era necessaria riservatezza». Ma ora non è più ministra. «Ho l’atto di cessazione dell’esercito a me e ho tre mesi per andare via. Intanto mio marito ha fatto richiesta perché è aiutante di campo di un generale e per il suo ruolo può avere quell’appartamento». Scusi ma se era così semplice e regolare, perché avete deciso di farlo solo adesso? «Quando sono diventata ministra, mio maritoèstato demansionato. Ora ha di nuovo i requisiti. E comunque noi prima facevamo una vita completamente diversa. Dopo la vita del marito ha seguito quella della moglie. Se vivevamo in due uno sull’altro poteva andare bene, poi le condizioni sono cambiate. E anche adesso continuo ad avere una vita diversa». Che vuol dire? «È una vita di relazioni, di incontri». Però avete una casa di proprietà e questo vi impedisce di poter usufruire dell’alloggio di servizio. «In realtà mio marito ha la residenza nella sua città dove ha una casa, ma ha diritto ad avere l’alloggio dove lavora. Invece l’appartamento di Roma al quartiere Pigneto è intestato soltantoame. Finora è rimasto vuoto, non l’ho affittato. Continuo a pagare il mutuo e sono nella legalità e per questo non capisco gli attacchi. Crede davvero che se non fosse stato tutto in regola lo Stato maggiore avrebbe dato il via libera?». Lei è stata ministra. Non ritiene che fosse difficile dire di no a suo marito? «Potevano farlo. E comunque se avessi lasciato quell’alloggio di servizio per trasferirmi in un altro avrei dovuto fare un doppio trasloco visto che quello di mio marito era a carico dello Stato. Invece così lo Stato ha risparmiato». Al momento della sua nomina lei aveva assicurato che suo marito sarebbe stato trasferito ad altro incarico. Come mai non è successo? «L’avevo spostatoeadesso è tornato a fare quello che faceva. Non è giusto che lui paghi le conseguenze del mio incarico. Posso assicurare che da questa mia nomina è stato solo svantaggiato: è andato in un altro ufficio per motivi di opportunità perché ero convinta fosse giusto. Quando ho cessato l’incarico è stato reintegrato». Lei è stata nominata in quota 5 Stelle e il Movimento ha sempre dichiarato guerra ai privilegi. «Non credo proprio che si tratti di un privilegio perché io l’appartamento lo pago e lo pago pure abbastanza». Molti militari lamentano di non aver ottenuto l’alloggio pur avendo i requisiti. «Durante il mio mandato io mi sono occupata delle esigenze di tutti i militari. E infatti è sempre stato detto e scritto che i generali mi osteggiavano e la base mi difendeva. Lasci stare, qui ci sono altre ragioni. Due giorni fa è stato pubblicato un documento riservato con il mio test attitudinale per l’Aise, l’agenzia dei servizi segreti. Poièsaltata fuori la storia della casa. È evidente che sono sotto attacco». Da parte di chi? «Non lo so. È un attacco al presidente Conte? All’Aise, al Movimento? Alla Link Campus, dove sono tornata a lavorare?». Nel pomeriggio Luigi Di Maio le chiede pubblicamente di lasciare la casa. Vi siete parlati? «Si, gli ho spiegato che tutto è stato fatto correttamente». E quindi? «Quando l’incarico di mio marito sarà terminato lasceremo la casa come dicono le regole». Stefano Buffagni dice che lei non ha rispettato le regole del Movimento. «Se mi avesse chiamato l’avrei spiegato anche a lui». Quindi resterà nel M5S? «Ho chiesto di essere una dei 12 facilitatori. Ci rimarrò di sicuro».

Ridurre (ancora) le imposte si può, parola di Giuseppe Conte. La propaganda di Salvini contro il governo «tasse, sbarchi e manette» lo ha stancato. Il premier non ne può più di sentire il leader della Lega tuonare un giorno sì e l’altro pure contro una manovra che, tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre, è stata studiata «per dare ai cittadini e non pertogliere». E così, ora che la legge di Bilancio ha iniziato il suo iter in Parlamento, Conte inverte la marcia. E ribalta, prima ancora dei numeri, la comunicazione, su un tema che è in cima ai pensieri degli italiani. «Sto lavorando con il ministro dell’Economia Gualtieri perché voglio ridurre ancora di più le tasse, come ad esempio quella sulle auto aziendali — dichiara il premier al Corriere —. Faccio un appello ai gruppi parlamentari di maggioranza a collaborare con il governo, perché tutti ci si impegni a raggiungere questo risultato. Completiamo l’opera e chiudiamo il cerchio, possiamo essere ancora più ambiziosi». In tanti, e non solo nei partiti dell’opposizione, salteranno sulla sedia a sentire Conte che definisce ambiziosa la manovra del governo giallorosso. Ma il presidenteèfortemente convinto che lo sia e che si possa azzardare anche qualcosa di più. «Dopo i notevoli sforzi fatti da tutti noi con la sterilizzazione delle clausole Iva per 23 miliardi, non posso accettare la falsità che questa possa essere descritta come una manovra che aumenta le tasse — insiste il premier, mostrando di essere molto arrabbiato per critiche e attacchi che ritiene ingiusti e strumentali —. La pressione fiscale infatti non è aumentata. Deve vincere la verità, contro le mistificazioni e le menzogne». E la verità, stando ai calcoli del governo, è che le tasse imposte sono «appena il 5 per cento» di una Finanziaria da trenta miliardi. E qui Conte ricorda le «numerose misure a favore delle famiglie e delle imprese, i tre miliardi ai lavoratori eitre come superbonus». Per quanto possa sembrare lunare, tra Palazzo Chigi e Mef si ragiona dell’obiettivo «zero tasse» e si fa di conto, per vedere se e quanto sia possibile rimodulare da subito la plastic tax. Luigi Di Maio pensa che serva a «dare una scossa» sul fronte green e Conte non intende ignorarlo, ma il 26 gennaio si vota in Emilia-Romagna e il governatore del Pd, Stefano Bonaccini, ritiene «una follia» penalizzare una regione che ha 228 aziende nel settore della plastica. Conte insomma comincia a temere che sia stato un errore aver dato al Paese l’impressione che la manovra sia zeppa di microtasse, pensa che sarebbe stato meglio dare al Mef più tempo per tagliare gli sprechi e medita di correre ai ripari. In questa fase, delicatissima per la maggioranza, il capo del governo vuole stemperare i toni e sta bene attento a non accusare le forze che lo sostengono. Ma forse in cuor suo spera che l’appello ai gruppi parlamentari faccia fischiare le orecchie a Matteo Renzi, che dopo aver bocciato l’imposta sulle auto aziendali («inspiegabile mazzata alla classe media») ha definito insufficiente la manovra del governo e lanciato un «piano choc» da 120 miliardi per ridurre l’Irpef. Conte, per quanto pensi che «tutti vogliono la riduzione delle tasse e nessuno deve cercare l’applauso per questo», non sfida l’ex premier e spera anzi di riuscire al più prestoapacificareirapporti tra Pd, 5 Stelle, Italia viva e Leu. Però è determinato a sradicare il pericoloso meccanismo che porta le singole forze a inseguire il consenso a colpi di slogan piantando le loro bandierine, senza troppo curarsi della tenuta del governo. «I sondaggi — ragiona in questi giorni il giurista pugliese — dimostrano che le continue punzecchiature non pagano e sono un assist a Salvini». Per dire del metodo, sembra che il presidente abbia apprezzato lo stile con cui il ministro di Leu, Roberto Speranza, ha accettato di condividere con gli alleati il merito dell’eliminazione dei superticket. «Dobbiamo ragionare in un’ottica di maggioranza», ripete Conte ai ministri. E cerca in agenda una data per una gita «in pieno relax», per fare squadra, conoscersi meglio e imparare a coordinarsi.