Mauro Magatti

Dieci anni fa, quando il M5S nasceva, gli assetti neoliberisti della globalizzazione sembravano destinati a durare in eterno. In quel contesto, Grillo e Casaleggio concepirono un contenitore antisistemico e post ideologico nel quale confluirono elementi molto eterogenei: istanze ambientaliste, ideali di democrazia diretta gestita attraverso la rete, opposizione al capitalismo delle grandi imprese, difesa del lavoro nella nascente gig economy, nuove forme di condivisione attraverso i beni comuni. Non per nulla sono stati definiti «populisti di sinistra».

Il successo elettorale del movimento è stato formidabile tanto da arrivare a vincere le elezioni nel 2018 con il 33% dei voti. Un consenso peraltro prevalentemente ottenuto nelle regioni meno sviluppate del Sud. L’alleanza con la Lega ha sorpreso molti. Sembrava qualcosa di innaturale. L’impossibile conciliazione tra opposti. E, in effetti, i mesi del governo pentastellato sono stati molto travagliati con una contrapposizione quotidiana sui dossier più importanti.

In realtà, la vera posta in gioco del Conte 1 è stata la leadership del populismo italiano. È stato su questo terreno che Lega e M5S si sono confrontati facendo a gara nel proporre le misure che potevano solleticare il consenso popolare (quota 100 vs reddito di cittadinanza; flat tax vs salario minimo; lotta all’immigrazione vs No Tav). Non c’è dubbio che la Lega di Salvini ha stravinto quel confronto, tanto che nel giro di un anno i rapporti di forza tra i due partiti (misurato attraverso i sondaggi) si sono ribaltati: con la Lega oltre il 30% e il M5S sotto il 20. Da qui la decisione di Salvini di rompere il patto di governo.

In quei giorni così drammatici, la palla è tornata in mano ai 5S che, come partito di maggioranza relativa di un Parlamento legittimo, hanno esitato su cosa fare. O meglio su chi essere. Una parte si è scoperta pienamente sovranista e di destra. Una vocazione resa esplicita nei giorni della crisi nelle dichiarazioni di quegli esponenti più filo-Salvini. La ragione è chiara: le istanze antisistema di 10 anni fa trovano oggi l’interprete più efficace nella destra che si afferma un po’ ovunque. Che nutre addirittura l’ambizione di cambiare gli assetti planetari. Qualcosa che va al di là della più fervida immaginazione dei fondatori del Movimento. Non è dunque per caso che una parte dei 5S abbia insistito nel considerare la Lega l’interlocutrice naturale.

Un’altra anima dei 5S ha invece sempre guardato alla sinistra classica e rimane quindi centrata sui temi ambientali e la liberalizzazione dei diritti civili. Il problema di questa componente è stato fino ad oggi duplice: rappresentare solo una parte del movimento e non avere punti di riferimento internazionale. Col rischio di finire come Podemos in Spagna o Syriza: in Grecia isolata e troppo debole per intestarsi la transizione verso un diverso modello di sviluppo, questa componente sembra condannata alla irrilevanza. Infine, nelle ultime settimane è inaspettatamente emersa una terza posizione espressa dalla premiership di Conte. Il fatto è che, dopo il voto europeo, arginato il pericolo sovranista e archiviata la vecchia commissione, a Bruxelles si è lavorato per far nascere una nuova alleanza tra componenti ideologiche diverse la cui aspirazione è quella di perseguire un diverso modello di crescita e di coesione. Cambiando prima di tutto la politica economica. L’embrione di qualcosa di nuovo di cui si intravedono, ancora confusamente, i tratti costitutivi. Nel nostro Paese, anche qui non senza sorpresa, questo embrione ora ha la possibilità di innestarsi all’interno di un corpo politico (quello dei 5S) nato sulla base di pulsioni molto diverse.L’Identità non è mai un’astrazione. Ma si forma relazionalmente attraverso le riposte che si danno alle istanze della realtà con cui si ha a che fare. Così oggi, a 10 anni di distanza, dalla sua nascita, il Movimento 5 Stelle deve decidere chi vuole essere. In un mondo completamente trasformato, non basta più dire di essere antisistema. Semplicemente perché il «sistema» che si voleva combattere è in disfatta e occorre dichiarare per quale nuovo «sistema» si vuole lavorare.

In concreto, dopo aver preso la decisione di far nascere il governo, il Movimento — dopo essere stato attratto dalla logica sovranità — deve anche decidere se vuole essere la cellula da cui far nascere una nuova forza capace di lasciarsi definitivamente alle spalle le logiche finanziarie e burocratiche per intraprendere nuove politiche centrate sull’ambiente, la giustizia sociale, il lavoro. E questa la scelta di fondo che sta dietro il Conte 2. Forse ciò a cui allude il premier quando parla di «nuovo umanesimo», espressione generica impiegata per indicare la necessità di una prospettiva nuova di futuro. Una frase celebre di Richard Bach, scrittore di successo di qualche anno fa, diceva: «Quello che il bruco considera la fine del mondo, il resto del modo chiama farfalla». I 5Stelle sono al momento della verità: per nascere devono morire, decidendo quale farfalla vogliono essere. Salvo naturalmente non decidere. E così venire spazzati via dalla storia.