La fotografia della barca a vela giunta due notti fa a Crotone con 58 pachistani a bordo è l’immagine più efficace per comprendere quanto sta accadendo. Perché da mesi, mentre il governo guidato da Matteo Salvini portava avanti la sua sfida contro le Ong, barchini e gommoni scaricavano sulle spiagge migliaia di stranieri disposti a tutto pur di entrare in Europa. Il loro numero è stato certamente inferiore a quello degli anni scorsi, gli arrivi non rappresentano in alcun modo un’emergenza. Però è inutile illudersi: nulla arresterà i flussi migratori. Le dimensioni del fenomeno dipenderanno dalle condizioni di vita nei Paesi di origine e soprattutto dalla possibilità di creare una situazione stabile in Libia, ma in ogni caso non si potranno fermare gli sbarchi. Ecco perché bisogna trovare il modo di governare il fenomeno anziché subirlo. E bisogna farlo mettendo da parte gli egoismi. L’esame dei dati relativi agli ultimi anni dimostra che solo una parte di migranti approdati in Italia vuole rimanere. Gli altri hanno l’obiettivo di raggiungere quegli Stati del Vecchio continente dove già vivono i loro familiari, dove sia possibile cercare un lavoro stabile e così immaginare di potersi costruire un futuro. Nell’ultima settimana i leader europei e in particolare la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen hanno assicurato che il governo guidato da Giuseppe Conte non sarà lasciato solo, hanno parlato di una strategia comune, di un piano di interventi per «cambiare passo».

Dopo l ’ approccio salviniano dell’uno contro tutti, era abbastanza scontato che una politica più moderata come quella proposta dal nuovo esecutivo avrebbe fatto breccia a Bruxelles. Ma purtroppo la storia, anche recente, insegna che in questa materia passare dalle parole ai fatti è sempre molto difficile. Appena quattro anni fa, dopo i naufragi che causarono centinaia di morti nel Canale di Sicilia, i leader europei giunseroaLampedusa e di fronte alle telecamere pronunciarono le stesse promesse, si impegnarono a ricollocare i migranti giunti in Italia e in Grecia in base a una divisione per quote. Quel piano fu un fallimento. La maggior parte degli Stati che avevano assicurato di voler aderire e collaborare si tirò indietro. Moltissimi stranieri vivono ancora qui, senza nessuna speranza di essere regolarizzati ma con la certezza di non essere rimpatriati. La stessa cosa è accaduta dopo l’emozione suscitata in tutto il mondo dal ritrovamento del corpicino di Alan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum. Ci sono state manifestazioni di massimo impegno e invece spesso è prevalsa l’indifferenza nei confronti di queste famiglie disperate. Oggi, per la prima volta dopo l’elezione di Ursula von der Leyen e la nascita del «Conte 2», a La Valletta siriuniscono i ministri dell’Interno europei. Al suo esordio sulla scena internazionale, la titolare del Viminale Luciana Lamorgese arriverà con una lista di priorità che al primo punto ha la redistribuzione preventiva dei migranti presi a bordo dalle navi delle Ong e portati a Malta o in Italia. Non solo. Conteeil ministro degli Esteri Luigi Di Maio insistono sulla necessità che tutto ciò avvenga sulla base di quote prefissateeil presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha ben spiegato come sia necessario prevedere sanzioni per quegli Stati che non vogliono collaborare alla divisione. Tra i temi discussi nei giorni scorsi, durante i bilaterali con Francia e Germania, è stata evidenziata la necessità di stilare una lista di porti europei che a rotazione possano gestire lo sbarco delle navi. Entro 48 ore si scoprirà se esiste una volontà di gestire il tema dei migranti a livello europeo o se invece le ultime dichiarazioni pubbliche dei leader siano soltanto manifestazioni di buone intenzioni. La riunione dei ministri sarà la sede per comprendere se questa volta si vuole davvero passare dalle parole ai fatti. È il primo incontro dall’elezione di von der Leyen, sarebbe assurdo credere che basti una riunione a chiudere l’accordo. Ma si tratta comunque di un banco di prova fondamentale. Se anche questa volta le promesse dovessero rimanere tali, a perdere non sarà soltanto il governo italiano, ma i nuovi leader europei che hanno assicurato di voler mettere in minoranza sovranisti e populisti grazie a una politica fatta di risultati concreti. Ecco perché questa volta non si può sbagliare.

L’ assemblea annuale degli industriali vicentini costituisce tradizionalmente un test dei rapporti tra il governo in caricaeil Nordequest’anno la si attendeva con particolare enfasi perché, a giudizio di molti, il partito del Pil è sottorappresentato nella nuova compagine giallorossa vuoi per l’estrazione territoriale dei ministri vuoi per le culture politiche che sembrano prevalere nell’alleanza tra Pd, Cinque Stelle e LeU. Se queste erano le premesse il test vicentino di ieri nonèandato male per il governo. Il verdetto degli imprenditori berici sul Conte1è stato totalmente negativo («voto 4» secondo il presidente Luciano Vescovi), per il Conte2il giudizio è rimasto sospeso ma l’idea di ridurre il cuneo fiscale, seppur tutto a vantaggio dei lavoratori, piace molto. Al contrario, allarma il pericolo di ricominciare conigoverni che tassano-espendono. Davanti a 1.200 imprenditori di quella che è una delle più potenti associazioni territoriali di Confindustria il governo non era sceso in campo conitop player ma aveva schierato un esordiente: il grillino Stefano Patuanelli, ingegnere triestino, visibilmente emozionatoecosì motivatoacreare empatia tra sé e la platea da ricorrere alla vecchia battuta secondo la quale «gli ingegneri non vivono, ma funzionano». L’intervento del ministro ha dato ragione a quanti sostengono che nel movimento grillino sia in corso un grande rimescolamento di culture politiche. Patuanelli, infatti, è arrivato ad abiurareauno dei cardini dell’identità Cinque Stelle: la disintermediazione. Ne è scaturito un inatteso elogio dei corpi intermedi e un esplicito invito: «Avrò bisogno di voi, al ministero ci saranno porte aperte per Confindustria e sindacati». Sempreariprova di quanto detto la captatio benevolentiae del neo-ministro ha persino trovato il modo di rinnegare l’operato del precedessore Luigi Di Maio ammettendo che «in questi 14 mesi abbiamo sbagliato spesso». E anche in materia di Industria 4.0 Patuanelli ha anticipato una correzione di rotta del suo ministero annunciando che il programma va rimodulato ed esteso, in modo che non si limiti a incentivare investimenti una tantum. Per i Cinque Stelle di governo si prepara però la prova del nove: dopo il suo speech il ministro sièincontrato con Giulio Pedrollo, vice presidente di Confindustria nazionale per cominciareadiscutere della madre di tutte le crisi, quella dell’automotive. Qui si vedrà di che pasta è fatto il ministro giuliano, se oltreadiscettare con buona padronanza della materia di plastica monouso, blockchain e intelligenza artificiale saprà calarsi nelle contraddizioni di una transizione verso l’elettrico che promette al sistema manifatturiero italiano lacrime e sangue. Il futuro, che ricorre spessissimo nei discorsi neogrillini in questo caso dovrà incontrarsi con il presente, altrimenti il meglio si porrebbe come avversario del bene. Ma, test governativoaparte,èinteressante sottolineare come, pur essendo Vicenza e l’intero Veneto terreno di conquista elettorale della Lega e di percentuali elettorali da urlo, nessuno ieri è sembrato aver nostalgia del salvinismo trionfante. Gli applausi per il governatore Luca Zaia sono stati sempre frequenti e genuini ma fanno parte del tradizionale rispecchiamento antropologico degli industriali nella Lega di territorio, quella che si batte strenuamente per l’autonomia regionale ma non ha in cima ai suoi pensieri i porti chiusi, l’uscita dall’euroel’omaggio a Putin. Del resto il giudizio del presidente Vescovi sul governo uscenteèstato impietoso: ha elencato navigator, reddito di cittadinanza e Quota 100 come altrettanti peccati mortali attribuiti in parti uguali a gialli e verdi. E proprio grazie a questa premessa il leader degli industriali ha anticipato al suo interlocutore che non sono previsti sconti per il nuovo governo. Per gli imprenditori vicentini l’Alitalia invece che rifinanziata andrebbe chiusa e preoccupa la tendenza di alcuni ministri di promettere nuova spesa a pioggia. Chi, infine, volesse poi capir meglio l’umore del Nord potrebbe tentare uno slalom tra i giudizi più sferzanti dello stesso Vescovi. Che ha ammesso di aver trovato il discorso di insediamento di Giuseppe Conte «inutilmente prolisso», di riporre grande fiducia in Paolo Gentiloni versione Bruxelles, di concedere scarsa attenzione a Matteo Renzi («Italia viva? Non so che roba sia») e invece di trovare molto sensata la proposta del collega di Assolombarda, Carlo Bonomi, di pagare di più i giovani al primo impiego. Il Nord, dunque, si misura con Roma ma sa che molte soluzioni le dovrà elaborare in casa.

È uno sconsolante dejà vu. È vero che gli elettori, quando si tratta di certe faccende, hanno la memoria corta. Ma la classe dirigente non dovrebbe soffrire della stessa malattia. In vista di una ennesima, possibile riforma elettorale, si torna a parlare di virtù e difetti dei vari sistemi (maggioritario a un turno o due turni, proporzionale puro, eccetera) con spensierata ignoranza, come se non avessimo alle spalle trenta e passa anni di discussioni e di esperimenti. Facciamo il punto su quanto la storia dovrebbe averci insegnato. Primo: chiunque dica che il tale o tal altro sistema elettorale è in grado di dare stabilità alla democrazia non sa di cosa sta parlando. La stabilità di una democrazia dipende da tre cose. Il radicamento sociale dei partiti è una di esse. Così come lo sono le tendenze in atto, in una certa fase storica, alla radicalizzazione degli elettorati o alla de-radicalizzazione. Così come lo è, infine, l’assetto istituzionale complessivo (di cui la legge elettorale è solo un frammento, ancorché importante). In questa fase storica, non solo in Italia, si assisteaun indebolimento—ma più accentuato in alcune democrazie — del radicamento sociale dei partiti. Inoltre, a causa (forse) della lunga crisi economica, viviamo in un periodo di forte radicalizzazione degli elettorati.

C iò può spiegare quanto accade in Paesi — dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna alla Spagna — con assetti istituzionali diversi ma con una cosa in comune: sono costruiti in modo da favorire stabilità politica e capacità di governo della democrazia. Ciò significa che se e quando la tendenza alla polarizzazione degli elettorati si esaurirà, quelle democrazie torneranno probabilmente ad essere stabili. È escluso che in Italia ciò sia possibile. Perché il nostro assetto istituzionale è costruito in modo da garantire che, in nessun caso, l’Italia possa essere una vera democrazia governante. La «costituzione più bella del mondo» (sic) generò un regime assembleare con governi istituzionalmente deboli. Altro che «pesi e contrappesi». Crearono contrappesi di ogni tipo (due camere con uguali poteri, un primo ministro senza reale possibilità di controllare i ministri, eccetera). Ma «si dimenticarono» di fabbricareipesi. Nonostante la stabilità politica di fondo dovuta alla presenza di un partito dominante, reso inamovibile dalla Guerra fredda, nel periodo 1948- 1993, l’Italia soffrì di continua instabilità governativa, governi deboli e (salvo qualche eccezione) di brevissima durata. Non fu un caso. Era l’inevitabile conseguenza di quel particolare assetto istituzionale. Secondo: quando trenta anni fa, soprattutto a causa della fine della Guerra fredda, le circostanze favorirono un cambiamento in senso maggioritario della legge elettorale, i fautori di quella riforma (fra i quali c’era anche chi scrive) non pensavano che ciò sarebbe bastato a fare dell’Italia un’autentica democrazia governante (nella quale il governo di legislatura è la regola mentre la sostituzione di un governo all’altro senza elezioni, pur sempre possibile, è l’eccezione). Pensavamo (speravamo) che quella riforma fosse solo il primo passo: l’obiettivo era cambiare la Costituzione, trasformare ilregime assembleare, voluto dai costituenti per loro rispettabilissime ragioni, in una democrazia governante, per l’appunto. Sono stati tanti gli sforzi inutili. Occorre prendere atto che quel tentativoèdefinitivamente fallito. Il risultato del referendum costituzionale del 2016 (la schiacciante vittoria del conservatorismo costituzionale) ha posto la pietra tombale sulla possibilità di cambiare la Costituzione. Se ne riparlerà, forse, fra venti o trenta anni. Ma ciò significa anche che quale che sia la legge elettorale in vigore l’instabilità governativa cronica non potrà essere eliminata. Terzo: ridimensionate le aspettative rispetto alla legge elettorale, data la particolare condizione italiana, si può solo dire quanto segue. Ci sono inconvenienti più o meno gravi, anche se fra loro diversi, sia con il sistema maggioritario sia con il proporzionale. Il maggioritario favorisce una competizione elettorale bipolare, ossia fra due coalizioni. Ma, come l’esperienza italiana insegna, è improbabile che chi esce vincitore dalle urne possa governare per un’intera legislatura. Le coalizioni elettorali che si formano sono troppo eterogenee al loro interno per generare governi stabili. E il contesto istituzionale in cui opererà il governo è fatto per esaltare le divisioni entro le maggioranze, per alimentare instabilità. Il vero vantaggio è comunque che, in un gioco bipolare, normalmente, gli elettori premiano le componenti meno estremiste delle due coalizioni. I cui leader, tuttavia, devono subire il ricatto dei gruppi minori. Se vige il sistema proporzionale gli inconvenienti sono di altro tipo. Da un lato, in regime di proporzionale, è necessario che si costituisca un «centro» abbastanza forte da dare un minimo di stabilità alla democrazia. Altrimenti essa finirà in balia degli estremisti di ogni colore arrivando prestoaun punto di rottura. Dall’altro lato, un centro tendenzialmente inamovibile (sempre al governo, ora con la destra ora con la sinistra) non è fatto per garantire al Paese, quanto meno nel lungo periodo, un buon governo. In ogni caso, nulla può essere peggio del sistema elettorale (misto) oggi in vigore: haidifetti sia del proporzionale sia del maggioritario e nessun pregio. Chiudo con una notazione su un aspetto più contingente. La scissione di Renzi sembra avere creato, per il Pd e per Conte, una specie di Comma 22. Se verrà accelerata, in concomitanza con la prevista riduzione dei parlamentari, la riforma elettorale proporzionale, ciò darà immediatamente grande forza politica a Renzi come a chiunque voglia ricostituire il centro. D’altra parte, una riduzione dei parlamentari senza proporzionale favorirebbe Salvini (sovrarappresenterebbe elettoralmente il partito più forte). Se, infine, il Pd e Conte fossero tentati di rinviare la riduzione dei parlamentari ciò aprirebbe un conflitto con i5Stelle che su quel provvedimento hanno investito molto della loro identità di movimento antiparlamentare. Un bel trilemma. Sarebbe anche uno spettacolo divertente. Se non riguardasse proprio noi.

Gli europei evadono le tasse per 825 miliardi di euro all’anno. E gli italiani evadono più di tutti. Sono questi i dati di uno studio che il Pse ha commissionato al professor Richard Murphy, direttore del Tax Research LLP, e che il Parlamento europeo ha fatto propri nella relazione che ha approvato nel marzo scorso sulla lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Ma nella stessa relazione il Parlamento «deplora la mancanza di statistiche affidabili e imparziali sull’ampiezza dell’elusione fiscale e dell’evasione fiscale». I calcoli in materia sono estremamente complessi. Le cifre variano a seconda dei parametri presi in considerazione. Ma il danno che subiscono le amministrazioni pubbliche, cui spetterebbe il compito di mantenere uno stato sociale che non ha paragoni al mondo, e con esse i contribuenti onesti, è certamente enorme. Come che sia, secondo il rapporto Murphy, gli italiani sono i più grossi evasori sia in cifra assoluta, sia in proporzione al Pil, sia se si calcola il valore pro-capite. Anche sull’evasione dell’Iva, bisogna dire, non temiamo confronti. La capacità degli italiani di evadere è inversamente proporzionale alla loro produttività. Ed è evidente come questi due dati, uno che spiega il nostro deficit pubblico, l’altro che illustra la nostra bassa crescita, non siano casuali ma risultino strettamente connessi. Quando Romano Prodi indica che la lotta all’evasione dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo italiano, e certamente di un governo orientato a sinistra, dice dunque una cosa ovvia, ma apparentemente molto ardua da mettere in pratica. Anche perché, per combattere l’evasione, non dovremmo confidare troppo nell’«aiutino» dell’Europa, come la nostra politica è ormai abituata a fare di fronte a ogni questione difficile. In primo luogo perché la Ue ha pochissime competenze in materia fiscale anche se, dopo decenni di battaglie, è riuscita a ottenere di fatto l’abolizione del segreto bancario che rimpinguava le casse di molti Paesi con i soldi dei nostri evasori. E poi perché gli strumenti di una efficace lotta all’evasione vanno cercati e messi in atto attraverso scelte di politica nazionale. E non solo scelte tecniche. Un Paese in cui i partiti di destra da decenni spingono i cittadini ad odiare le tasse e cercano di proteggere gli evasori con condoni a catena, la lotta alla frode fiscale è un problema più politico e culturale che tecnico e legislativo. Dove invece l’Europa ci può davvero venire in aiuto è sul fronte dell’elusione fiscale. Stiamo parlando di quella che viene definita “politica fiscale aggressiva” per cui le grandi multinazionali, soprattutto i giganti del web e dell’e-commerce, fanno accordi di tassazione con alcuni Paesi europei che consentono loro di versare pochissime imposte e di non pagare le tasse là dove realizzano i profitti maggiori. Nel suo rapporto il Parlamento europeo denuncia che l’elusione fiscale si colloca «tra 160 e 190 miliardi di euro». E che «la pianificazione fiscale aggressiva distorce la concorrenza per le imprese nazionali, in particolare le piccole e medie». Già nella precedente Commissione Juncker la responsabile della Concorrenza, Margrethe Vestager, aveva usato proprio lo strumento della tutela di mercato contro gli aiuti di Stato per attaccare alcuni Stati membri (Irlanda, Olanda e Lussemburgo) che praticano questa concorrenza fiscale sleale. Ora, nella Commissione von der Leyen, la Vestager ha mantenuto la concorrenza, ma in più è vicepresidente esecutivo e responsabile per l’economia digitale. Quello che ha a disposizione, insomma, è un bazooka di tutto rispetto. E magari, grazie ai nuovi poteri e a un consenso crescente nelle principali capitali della Ue, potrà costringere i giganti Usa del web a pagare le tasse nei Paesi dove accumulano profitti, tra cui l’Italia. Di certo questo è un obiettivo che nessuno Stato europeo, e tanto meno il nostro, sarebbe in grado di raggiungere con le proprie forze.

C i sono molte cose da esaminare questa settimana: di politica italiana, europea, internazionale. Ma non soltanto di politica in senso stretto, bensì anche di economia, finanza, poteri bancari, e via dicendo. L’Italia è dal punto di vista geografico e geopolitico un paesino di scarso rilievo, ma la sua vita è di grande importanza per l’Europa: condividiamo con l’Occidente una data ufficiale, 2019 anni dalla nascita di Gesù di Nazareth. È dunque la religione cristiana che fa testo. Una storia diversa da Paese a Paese, ma influente l’una sull’altra, nel bene e nel male, nel prevedibile e nell’imprevisto. Citerò a questo proposito una breve frase di Paul Valéry: «Da dove può venire l’idea che l’uomo è libero? O l’altra per cui non lo è? Non so se a cominciare questa controversia sia stata la filosofia o la polizia». Non si poteva dir meglio. A mio avviso l’uomo vive principalmente attraverso i suoi pensieri, che possono essere di qualunque genere e natura, ma c’è anche la polizia, cioè l’ordine pubblico, lo Stato che tutti possono contribuire a formare e a sorvegliare che funzioni come deve nell’interesse generale. Se queste norme non vengono rispettate c’è la polizia che interviene a punire i colpevoli come dice appunto Valéry. Mi permetto di aggiungere che talvolta la polizia fa il contrario di quello che dovrebbe, ma questo fa parte della vita che non è un’equazione matematica bensì il comportamento degli umani che non sono né tigri né leoni e neppure topi.

partiti in Italia sarebbero tre (uso il condizionale perché penso in questo momento a quelli più importanti): la Lega di cui il capo è Matteo Salvini, i Cinque Stelle il cui capo è Luigi Di Maio e il Partito democratico di cui il segretario è Nicola Zingaretti. A parte il fatto che in ciascun partito ci sono coloro che collaborano con il leader ma anche quelli che passano il tempo a dargli fastidio, magari per poterlo sostituire o affiancare con maggior peso di quello che hanno. Ciò detto i partiti di minore consistenza quantitativa e quindi anche politica sono più numerosi: c’è Meloni con i suoi Fratelli d’Italia; c’è Berlusconi che è dal 1993 che si occupa di politica (e naturalmente di economia); ci sono gli ex Democratici (alcuni leader hanno abbandonato il partito che prima guidavano). Le loro idee in gran parte coincidono con quelle ufficiali del Pd ma formalmente preferiscono starne fuori anziché non guidare il vertice. C’è poi Alessandro Di Battista. Un tempo intimo amico di Luigi Di Maio ma affezionato a un lavoro non già di squadra ma individuale. Per anni è andato in moto dalla Sicilia all’Alto Adige, quasi sempre con abbracci e baci a Di Maio ma dedito a far politica individuale e distinta se non addirittura contraria a quella ufficiale dei Cinque Stelle. Poi c’è Grillo che dei Cinque Stelle è stato il padre per oltre dieci anni di predica populista; poi si è stancato e ha continuato a predicare ma non più da padre bensì da nonno. Non che il nonno non abbia un peso in una famiglia ma un po’ più alla lontana. Questa è una debolezza per certi aspetti ma per altri è una forza. La debolezza deriva dal fatto che la politica quotidiana la fa il giovane nipote, la forza è che il parere del nonno o padre che sia è più autorevole: vede più chiaramente la situazione o almeno così sembra. Per quanto riguarda l’attualità di cui stiamo parlando Beppe Grillo non concorda affatto con Di Maio; il partito che ha in mente dovrebbe non dico unirsi ma essere molto più vicino a quello democratico di Zingaretti. Grillo insomma è a cavallo tra i due e poiché sono alleati almeno formalmente un cavallo comune sarebbe un animale perfetto. Ci arriverà? Mi pare difficile ma sarebbe ottimo. Infine ci sono i Movimenti. Non hanno la forma vera e propria di un partito ma di gruppi di persone, di categorie, di abitanti di Comuni e Regioni, di sindacati, insomma di interessi di vario genere e tipo che accomunano non politicamente ma comunque con interessi concreti vaste categorie di pubblico. A cominciare ovviamente dai sindacati di vario tipo che culminano poi nel sindacalismo vero e proprio che come tale di tanto in tanto si muove e influenza l’idea politica del Paese. Dovrei nominare anche Carlo Calenda che non è chiaro con esattezza che cosa sia ma comunque ama la politica e la cultura. Politica e cultura vanno talvolta insieme, talaltra sono due attività del tutto diverse che però possono confluire oppure no. Di Calenda è ancora difficile dire se è un politico colto oppure due cose che non si toccano tra loro o infine niente del tutto. Si vedrà. *** A questo punto diventa indispensabile parlare di Matteo Renzi. Dopo la sconfitta del referendum del 2016 che riguardava la sostanziale abolizione del Senato come camera parlamentare e la riduzione della struttura costituzionale alla sola Camera dei deputati, con il potere esecutivo nelle mani del governo, Renzi ha avuto un periodo di ritiro e silenzio. Naturalmente era solo un’apparenza: nel periodo tra il 2014 e il 2016 Renzi era stato il capo assoluto del Partito democratico. Non faceva parte della Camera dei deputati ma era segretario del suo partito e primo ministro del suo governo. Ci furono alcune elezioni in quei due anni, locali nazionali e internazionali; tra queste ultime ci furono le elezioni europee dove il Pd raggiunse addirittura il 40 per cento: cifra estremamente rispettabile ma purtroppo non sufficiente quando il referendum contro la riforma costituzionale voluta da Renzi era arrivato ad assicurare ai no il 60 per cento mentre i renziani si erano fermati al 40. Dopo quella batosta politica e dopo aver abbandonato la carica di primo ministro (che passò nelle mani di Gentiloni), Renzi scomparve alcuni mesi dal panorama dopo che il suo partito nelle elezioni politiche era crollato al 18 per cento. Da allora altre elezioni non ci sono state e il governo Renzi è stato sostituito da un governo Gentiloni che si comportò molto bene e probabilmente riguadagnò una parte della consistenza perduta. Non è moltissimo rispetto a un tempo ma è abbastanza rispetto alla catastrofe di marca renziana. Per di più ci sono Movimenti che condividono il pensiero politico e le varie iniziative del Pd guidato dopo le primarie da Nicola Zingaretti con la carica di segretario. Gentiloni ha ottenuto un’importante carica di Commissario nel governo europeo ed è stata nel frattempo siglata l’alleanza con i Cinque stelle di cui abbiamo già parlato in precedenza. Non avevamo ancora però detto che Renzi si è risvegliato. Per ottenere che cosa? Con quale obiettivo? Chi conosce bene Renzi può rispondere facilmente e correttamente a questa domanda: Renzi punta ad ottenere un risultato politico che lo porti alla testa della struttura che ha in mente: un altro partito, vicino a quello democratico, ma da lui guidato. Renzi deve essere il numero uno di quello che si propone: una nuova formazione magari più a destra del Pd o più a sinistra di Di Maio o del tutto nuova, ma renziana e basta. Lui ha comunque un rilevante seguito, sia alla Camera che al Senato: quei parlamentari lo seguiranno dovunque andrà. La loro forza non è schiacciante ma è di notevole rilievo. Renzi li cavalca ma i cavalli sono loro. È un fenomeno, quello renziano, connaturato con la sua esistenza. Può essere un esponente di un’estrema sinistra oppure di una sinistra moderata oppure di un centrosinistra oppure di un centrodestra. Al di là di questo non potrebbe andare perché si scontrerebbe con Salvini che è a suo modo un Renzi numero uno. Non si somigliano fisicamente e neppure nei modi di fare ma hanno lo stesso nome di Matteo. Sarà un caso ma i loro comportamenti hanno lo stesso suono. Non saranno mai alleati perché l’uno toglierebbe il posto all’altro cosa che nessuno dei due è in grado di tollerare. Si era pensato che Renzi fosse definitivamente uscito dalla politica dedicandosi piuttosto alla famiglia (che gli ha dato notevoli grane di carattere giudiziario) ed eventualmente allo studio della politica. Errore: ce l’abbiamo di nuovo tra i piedi. Da questo punto di vista la citazione di Paul Valéry che ho posto all’inizio di questo articolo mi sembra quanto mai opportuna. Terminerò con un’altra citazione che tuttavia è del tutto diversa. Grazie. L’autore è Isaiah Berlin: «Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli; ma libertà totale per i lupi significa morte per gli agnelli. Una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e i meno capaci abbiano una vita decente».

Christine Lagarde ancora non si è insediata alla guida della Banca centrale europea ma il duello con la cancelliera tedesca Angela Merkel è già iniziato ed ha in palio la ricetta per la crescita dell’Eurozona. Nominata grazie a un delicato compromesso fra Parigi e Berlino, Lagarde ha parlato per la prima volta da presidente eletto della Bce consegnando al Parlamento europeo un messaggio esplicito: «Le economie più ricche dell’Eurozona, che hanno spazio fiscale a disposizione, devono spendere per migliorare le loro infrastrutture» ed è un passaggio cruciale «perché si tratta della maggioranza dei Paesi europei» e può portare a una «cooperazione fra tutte le istituzioni europee per rispondere alla minaccia del populismo». Il messaggio è diretto anzitutto a Berlino perché la Germania non è solo la nazione più ricca dell’Eurozona ma è anche alle prese con un inatteso rallentamento del Pil che pone l’interrogativo sulla necessità di misure fiscali da parte del Bundestag a sostegno della crescita. L’intenzione di Lagarde, che si insedierà a Francoforte il 1 novembre, sembra essere dunque di trovare un accordo con Angela Merkel su un pacchetto di stimoli capaci di aiutare la Germania ad allontanare lo spettro della recessione e al tempo stesso di consentire all’Eurozona di avere risorse per politiche espansive capaci di affrontare il malessere sociale da cui si alimenta la protesta populista in più Paesi. È cBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI un approccio condiviso da più capitali europee – da Parigi a Madrid – che ha trovato ascolto a Berlino da parte del ministro delle Finanze, Olaf Sholtz, che si è detto «pronto ad agire in momenti di crisi nel rispetto di un bilancio in equilibrio». Ma Angela Merkel è di tutt’altra opinione perché «in forza degli investimenti che abbiamo già approvato non ci sarà carenza di liquidità». Il riferimento è al bilancio 2020 per la costruzione di centinaia di migliaia di appartamenti, strade e infrastrutture digitali che il Bundestag dovrà varare in novembre e su cui Merkel confida per far riprendere il Pil nazionale che nel secondo semestre dell’anno è sceso dello 0,1 per cento. Ovvero, la Germania ha risorse a sufficienza per riprendersi e non ha bisogno di varare alcuno stimolo fiscale. La differenza di approccio fra Lagarde e Merkel non potrebbe essere più lampante: la prima teme l’impatto della guerra commerciale Usa-Cina e per allontanare l’incubo della recessione dall’Eurozona chiede ai Paesi ricchi dell’Ue di guidare uno stimolo per la crescita mentre la seconda ritiene che la fase di difficoltà della Germania sia passeggera e dunque si op-pone a qualsiasi concessione sul fronte degli incentivi fiscali. E’ un duello solo agli inizi nel quale potrebbe svolgere un ruolo Ursula van der Leyen, la nuova presidente tedesca della Commissione europea, intenzionata a incentivare la crescita Ue facendo leva su sostegno all’occupazione, all’innovazione tecnologica e alla difesa del clima. E’ una piattaforma studiata per essere un terreno di incontro nell’Emiciclo di Strasburgo fra popolari, socialisti, liberali e verdi al fine di diventare una piattaforma comune fra i governi Ue e dunque anche per facilitare una mediazione fra Lagarde e Merkel. Da qui l’importanza delle mosse dei singoli Paesi Ue. Parigi si è affrettata a far sapere di considerare «il rallentamento tedesco più pericoloso della Brexit» in ragione del fatto che l’interscambio a cavallo del Reno è il triplo rispetto a quanto attraversa la Manica. Ma Roma è ancora più esposta a tale rischio perché la Germania è il nostro primo partner commerciale – e la Francia è il secondo – e dunque Macron si aspetta un sostegno attivo dal premier Conte, attorno alle indicazioni di Bruxelles. Tanto più che Madrid si è affrettata a sostenere le posizioni di Lagarde. C’è dunque un fronte del Sud che si sta manifestando, rafforzato dalle dichiarazioni rilasciate a Helsinki da Mario Centeno, presidente dell’Eurogruppo, e di Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione per l’euro, a favore di «stimoli all’economia e investimenti per combattere il rallentamento economico» da parte degli Stati che «ne hanno le possibilità fiscali». Ma a Berlino per il momento Merkel resiste, spalleggiata da molti Paesi del Nord. E’ questo l’inizio del dopo-Draghi.

Con il rifiuto di votare ieri per Christine Lagarde a presidente della Banca centrale europea, il Movimento 5 stelle ci ha di nuovo ricordato di che pasta è fatto: un partito di populisti scassabanche che, a prescindere dal merito e dai fatti, è capace di orientarsi su qualsiasi stupidaggine possa compiacere il popolo del risentimento. E si conferma così il sospetto che non si possa guarire da se stessi, e che insomma l’euro – peismo così rapidamente germogliato (e mai spiegato dopo il voto a Ursula von der Leyen) tra le file grilline possa marcire altrettanto rapidamente. I motivi dell’asten – sione, per come spiegati dagli eurodeputati di Casaleggio e Di Maio, appaiono infatti come una summa di banalità da Bignami del complotto. Lagarde, ex direttore del Fondo monetario internazionale, sarebbe infatti “corresponsabile dell’austerità” e “non ha avuto pietà verso paesi in difficoltà come la Grecia” (Piernicola Pedicini). Fino a iperboli grilline vecchio stampo, a riprova del proverbio secondo il quale “chi nasce tondo non muore quadrato”. Un esempio? “Non voteremo la Lagarde per rispetto ai popoli affamati dalle politiche del Fmi da lei diretto” (Ignazio Corrao). Si segnala così un problema per il Pd, un rischio di cui dovrebbero tener conto Dario Franceschini e tutti gli altri sostenitori di un’alleanza addirittura organica (e non solo episodica) con il M5s. I grillini sono notoriamente campioni di ginnastica a corpo libero: insomma di capriole. Non avendo nessun orizzonte ideale né culturale cui rispondere, possono facilmente prendere posizioni in contrasto le une con le altre. E nel giro di pochissimo tempo dar vita a dei veri testacoda. Senza mai dover spiegare nulla. Ieri hanno addirittura contestato, e non votato, un candidato alla presidenza della Bce che aveva usato come bandiera la parola “cre – scita” al posto di “austerità”. “Le persone hanno bisogno di sapere che è la loro banca centrale e che sta facendo politica con a cuore i loro interessi”, aveva detto Lagarde, sventolando pure l’idea di una Bce pronta a investire sulle politiche ambientali. In un solo voto (anzi: in un sol colpo) i grillini hanno ancora una volta confermato la loro natura tetragona e inaffidabile. Attenzione.

Sparare contro Renzi è lo sport preferito nel Pd; basterebbe questo per concludere che il Matteo fiorentino ha fatto bene ad andarsene. I dem erano fuori dalla stanza dei bottoni, senza nessuna speranza di rientrarvi, e il senatore semplice diRignano, con spregiudicatezza ma anche con abilità, li ha riportati al governo. Ahinoi e ahi Salvini, che forse più che da Zingaretti si è fatto abbindolare dalle promesse di voto anticipato del suo omonimo, ma i progressisti dovrebbero solo ringraziarlo. Invece oggi dal Pd si alza un coro di voci di condanna perla rottura, molte delle quali incomprensibili. Negli ultimi tre anni, Renzi è stato vissuto e trattatocome un problema dallamaggioranza dem, è naturale che egli ora abbia voglia di andarsene. Chi lo critica gli rimprovera di fare un’operazione di palazzo e di fondare un partito all’unico scopo di avere un potere di ricatto sul governo e alzare il prezzo, in tema di incarichi e poltrone ma anche di programma. Ovvio, Matteo se ne va per comandare meglio, ma nessuno può scagliare la prima pietra tra i dem, che sono corsi al governo con una manovra ancora più subdola, ben contenti di evitare il voto; anzi, filosofando pure sul perchéfosse un doveremorale non dare la parola agli elettori. Zingaretti non deve temere Renzi che se ne va, e soprattutto non avrebbe dovuto temerlo ad agosto, quando anzi avrebbe fatto bene a cacciarlo lui dal partito, visto che era evidente che più presto che tardi Matteo lo avrebbe mollato. Quel che il segretario dovrebbe invece temere è che il fiorentino se ne sia andato a metà: lasciando nel Pd una buona rappresentanza di suoi uomini siaalgoverno che nel partito, da Guerini a Lotti, dalla MoraniaMarcucci,il che significa che, anche da fuori, continuerà a tenerlo in pugno. Lafine della storia è gia scritta:l’equivoco Pd, nato dallafusione a freddo tra i Ds, ex Pci, e i margheritini, ex Dc, è finalmente terminato, e con esso l’illusione di un partito di sinistra a vocazionemaggioritaria. Renzifaràil suo centrino,forse anche con qualche kamikaze di Forza Italia e i nuovi postcomunisti proveranno a farsi un boccone di quel che è rimasto dei grillini, senza riuscire ad ammazzarlimamangiandosene una buona parte. Se non ci saranno altre sorprese, al prossimo giro Salvini trionferà. Renzi ha dichiarato ieri che esce dal Pd perché è un partito novecentesco. Forse scorda che lo è pure la Lega, alla quale il fatto di essere il partito più vecchio d’italia non impedisce il fatto di essere anche quello più votato.

La vicenda di questa crisi e del governo da essa partorito assomiglia alla trama de La banda degli onesti, il film capolavoro di Camillo Mastrocinque con Totò e Peppino, che racconta le rocambolesche avventure di una compagnia di falsari. Nell’attuale vicenda politica, infatti, dall’inizio alla fine (ammesso che sia finita) non c’è una sola parola di verità, ma solo furbizie e bugie, un gioco nel quale tutti hanno truffato tutti. Proviamo a mettere in ordine i fatti. Tutto inizia il 5 marzo 2018, giorno dopo le elezioni politiche. Salvini e Di Maio provano a mettersi insieme, ma non è un colpo di fulmine. L’ipotesi della «strana alleanza», ormai è accertato, era pronta da mesi, nonostante gli insulti reciproci scambiati per l’intera campagna elettorale. Alla fine i due fanno il governo truffando i rispettivi elettorati, ai quali avevano promesso ben altre soluzioni. Passano i mesi e Salvini, dichiarando eterna fedeltà a Di Maio, truffa Berlusconi, dal quale aveva avuto via libera ad andare al governo con i Cinque Stelle in cambio dell’assicurazione che si sarebbe trattato di una soluzione emergenziale, che lui sarebbe rimasto il leader di tutto il Centrodestra. Arrivano le elezioni europee, Salvini stravince e parte in contemporanea un doppio inganno. Da una parte Conte, spalleggiato da mezza Europa, si attrezza nel segreto per frenare la corsa di Salvini; dall’altra Salvini, in altrettanto segreto, lavora per preparare la caduta di Conte. Ad agosto si scoprono le carte e sappiamo com’è andata: la truffa di Conte vince su quella di Salvini, perché, nel frattempo, l’odiato Renzi si era lavorato Conte, offrendogli di cambiare in corsa la Lega con il Pd. Tutto bene quel che finisce bene? Macché, anche le carte di Renzi erano truccate, sia nella mano con Conte che in quella con Zingaretti. Incassato il governo (e la sua salvezza personale), Renzi infatti molla il Pd e avvisa Conte: amico, ora se vuoi vivere te la dovrai vedere con me (detto da uno che non sa stare sotto padrone suona come una preavviso di sfratto). Conte, quindi, passa da truffatore di Salvini (il quale aveva truffato prima Berlusconi, poi Di Maio e infine lui) a truffato da Renzi, che aveva appena truffato Zingaretti. Detto che tutti insieme hanno truffato gli italiani, la domanda ora è: «Chi trufferà Renzi?». Perché di onesti qui non c’è traccia neppure all’orizzonte, si vedono solo falsari. Anzi, il più sano – come si dice – ha la rogna.

«Tu vuo’ fa’ ‘o proporzionale / se i sondaggi vanno male/ governiamo l’Italy / sient’a mme nun ce sta’ niente a fa’/ ok proporziona’ se vuo’ fa’ o’ deputa’» Ricordate? Lo cantavano le Iene davanti a Montecitorio l’11 ottobre 2005 e al coretto che faceva il verso a Renato Carosone si unì allegra, tra gli altri, l’allora ministro Stefania Prestigiacomo. Si discuteva della soppressione del «mattarellum» che prevedeva un sistema maggioritario a turno unico per la ripartizione del 75% dei seggi parlamentari: sistema che, stando ai sondaggi, pareva destinato a far vincere alle elezioni di sei mesi dopo l’Unione di centrosinistra con un parallelo tracollo della destra in lite da mesi. Fu così che, in tre giorni, la maggioranza destrorsa si ricompattò e rovesciò tutto: basta col maggioritario, avanti il proporzionale. L’esatto contrario di quanto aveva sostenuto per anni Berlusconi: «Per noi il maggioritario è quasi una religione». Tesi confermata il 15 maggio 2005 quando ancora i sondaggi parevano a lui favorevoli: «Se vogliono tornare al proporzionale e al consociativismo si sbagliano di grosso». Anzi, voleva pure «eliminare la quota proporzionale». E chi stava dall’altra parte, a battersi contro la reintroduzione del vecchio proporzionale? La sinistra. Oggi ripropensa al proporzionale. Curioso. Come curioso fu il titolo di Libero del 14 ottobre 2005 dopo l’approvazione della nuova legge: «Addio cara Mortadella». Titolo di catenaccio: «Passa la riforma elettorale di Berlusconi. E per Prodi saranno guai». Perché questo addio al maggioritario? Risposta di Renato Farina, autore del commento: «Intanto è stato Berlusconi a papparsi Mortadella. Il quale è un leader da maggioritario cioè del nulla ormai; è un re travicello senza un posto dove sedersi e dire: questa è casa mia». Indimenticabile il commento di Roberto Calderoli su la Padania: «Noi avevamo il freno a mano tirato ma loro adesso devono cambiare l’autista. Il povero Prodi con questa legge rischia di non trovare neanche una macchina». Confesserà: «L’ho scritta io ma è una porcata». Insomma, una legge su misura della convenienza. Dice ora il suo capo Matteo Salvini, indignatissimo all’ipotesi che i «giallorossi» possano cambiare le regole per tornare al proporzionale, che la Lega scatenerebbe l’inferno. Statisti di scuola Patty Pravo: «Oggi qui / domani là…»