Andrea Bonanni
Gli europei evadono le tasse per 825 miliardi di euro all’anno. E gli italiani evadono più di tutti. Sono questi i dati di uno studio che il Pse ha commissionato al professor Richard Murphy, direttore del Tax Research LLP, e che il Parlamento europeo ha fatto propri nella relazione che ha approvato nel marzo scorso sulla lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Ma nella stessa relazione il Parlamento «deplora la mancanza di statistiche affidabili e imparziali sull’ampiezza dell’elusione fiscale e dell’evasione fiscale». I calcoli in materia sono estremamente complessi. Le cifre variano a seconda dei parametri presi in considerazione. Ma il danno che subiscono le amministrazioni pubbliche, cui spetterebbe il compito di mantenere uno stato sociale che non ha paragoni al mondo, e con esse i contribuenti onesti, è certamente enorme. Come che sia, secondo il rapporto Murphy, gli italiani sono i più grossi evasori sia in cifra assoluta, sia in proporzione al Pil, sia se si calcola il valore pro-capite. Anche sull’evasione dell’Iva, bisogna dire, non temiamo confronti. La capacità degli italiani di evadere è inversamente proporzionale alla loro produttività. Ed è evidente come questi due dati, uno che spiega il nostro deficit pubblico, l’altro che illustra la nostra bassa crescita, non siano casuali ma risultino strettamente connessi. Quando Romano Prodi indica che la lotta all’evasione dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo italiano, e certamente di un governo orientato a sinistra, dice dunque una cosa ovvia, ma apparentemente molto ardua da mettere in pratica. Anche perché, per combattere l’evasione, non dovremmo confidare troppo nell’«aiutino» dell’Europa, come la nostra politica è ormai abituata a fare di fronte a ogni questione difficile. In primo luogo perché la Ue ha pochissime competenze in materia fiscale anche se, dopo decenni di battaglie, è riuscita a ottenere di fatto l’abolizione del segreto bancario che rimpinguava le casse di molti Paesi con i soldi dei nostri evasori. E poi perché gli strumenti di una efficace lotta all’evasione vanno cercati e messi in atto attraverso scelte di politica nazionale. E non solo scelte tecniche. Un Paese in cui i partiti di destra da decenni spingono i cittadini ad odiare le tasse e cercano di proteggere gli evasori con condoni a catena, la lotta alla frode fiscale è un problema più politico e culturale che tecnico e legislativo. Dove invece l’Europa ci può davvero venire in aiuto è sul fronte dell’elusione fiscale. Stiamo parlando di quella che viene definita “politica fiscale aggressiva” per cui le grandi multinazionali, soprattutto i giganti del web e dell’e-commerce, fanno accordi di tassazione con alcuni Paesi europei che consentono loro di versare pochissime imposte e di non pagare le tasse là dove realizzano i profitti maggiori. Nel suo rapporto il Parlamento europeo denuncia che l’elusione fiscale si colloca «tra 160 e 190 miliardi di euro». E che «la pianificazione fiscale aggressiva distorce la concorrenza per le imprese nazionali, in particolare le piccole e medie». Già nella precedente Commissione Juncker la responsabile della Concorrenza, Margrethe Vestager, aveva usato proprio lo strumento della tutela di mercato contro gli aiuti di Stato per attaccare alcuni Stati membri (Irlanda, Olanda e Lussemburgo) che praticano questa concorrenza fiscale sleale. Ora, nella Commissione von der Leyen, la Vestager ha mantenuto la concorrenza, ma in più è vicepresidente esecutivo e responsabile per l’economia digitale. Quello che ha a disposizione, insomma, è un bazooka di tutto rispetto. E magari, grazie ai nuovi poteri e a un consenso crescente nelle principali capitali della Ue, potrà costringere i giganti Usa del web a pagare le tasse nei Paesi dove accumulano profitti, tra cui l’Italia. Di certo questo è un obiettivo che nessuno Stato europeo, e tanto meno il nostro, sarebbe in grado di raggiungere con le proprie forze.