Alberto Mattioli

Chi abbia davvero vinto alla riffa della crisi, ancora non è chiaro. Di sicuro, si sa chi ha perso: Matteo Salvini, precipitato in pochi giorni dall’onnipotenza all’irrilevanza, dall’altare alla polvere, dalle stelle (non cinque) alle stalle, dal tutto al nulla. Perfino al Tg2, il Capitano non è più il titolo di apertura. L’attuale classe politica, già in difficoltà con l’italiano, non ricorrerebbe mai al latino. Ma scommetteremmo che a qualche vecchio saggio democristiano tipo Mattarella sarà venuto in mente Genesi, 3, 19, «memento qui pulvis es et pulverem reverteris», oppure Ecclesiaste 1, 2, «vanitas vanitatum et omnia vanitas». Ma forse più che di vanitas il Capitano ha peccato di hybris, in un’estate dove tutto gli sembrava possibile e alla fine tutto gli è sfuggito dalle mani. Un’estate dove il Papeete Beach di Milano Marittima era diventato la succursale del Viminale o, perfino, in proiezione, di Palazzo Chigi e magari pure di Palazzo Venezia. Un’estate da uomo forte, di editti da spiaggia, di giornalisti sfanculati in diretta Facebook, di onnipresenza mediatica e onnipotenza social e perfino di sogni in infradito sui «pieni poteri». Bullizzando Di Maio e pentasoci fra un mojito e un bagno nell’Amarissimo come già un illustre predecessore, lui però a Riccione, mentre alle Europee entravano milioni di voti, le barche dei disperati non entravano nei porti, sotto l’ombrellone il Paese pareva apprezzare e a detta di tutti l’omo de panza era anche omo de sostanza, lanciato verso gli immancabili destini che in Italia, chissà perché, alla fine non quagliano mai. Poi il solito democristiano cinico e baro, un altro Matteo, ha fatto il suo gioco di prestigio e ha rinnovato la lunga e gloriosa tradizione nostrana di connubi, trasformismi, ribaltoni e così via. L’ha ammesso anche lui, il Matteo leghista, pur con tutti i distinguo del caso, «un errore se lo si considera in base alle logiche della vecchia politica», ma insomma sì, un errore: «Io non pensavo che ci sarebbero stati dei parlamentari renziani che invece di andare alle elezioni avrebbero votato anche per il governo di Pippo e Topolino», che invece poi sarà, pare, il Conte II. L’usato sicuro va forte anche a Topolinia. Matteo, inteso come Salvini, non l’ha presa benissimo. Prima è sparito, poi ha dato la sua versione della caduta: la colpa è dei poteri forti, dell’Europa cattiva, della coppia di fatto Merkel-Macron. «Questo governo nasce a Bruxelles per far fuori quel rompipalle di Salvini», dice l’interessato in una delle sue duemila dirette quotidiane. Naturalmente il complotto demo-pluto-massonico si tramava da tempo, anche se poi non si capisce perché Salvini gli abbia dato una mano sfiduciando Conte. Già, Conte. Macché avvocato del popolo, «è l’avvocato dei poteri forti». L’ex amico è diventato tanto nemico che oggi il Capitano non andrà nemmeno a farsi consultare. E commenta sprezzante il discorso di investitura: «L’ho sentito parlare di nuovo umanesimo. Manca che risolva la pace nel mondo e la ricrescita dei capelli» (sulla tinta, invece, il professore ha già dato). E certo, forse in casa Lega servirà una riflessione su una politica estera spericolata, una maggior attenzione nella scelta degli amici sovranisti, e anche degli intermediari. Putin sarà meglio non farlo più approcciare dai Savoini di turno, Bolsonaro ha ridato Battisti ma sull’Amazzonia non sta facendo una bella figura, Johnson aggiorna il Parlamento come Carlo I Stuart, Trump cinguetta elogi per «Giuseppi» Conte e Orban non si è preso nemmeno un migrante. In compenso ieri ha mandato una scarna letterina dove assicura il «caro Matteo» che lui non lo dimenticherà, che detto così suona perfino un po’ jettatorio. E adesso? Adesso, è chiaro, riprende la campagna elettorale, concesso e non dato che sia mai finita. Il Capitano riparte col giro d’Italia delle feste leghiste, oggi a Conselve, domani a Pinzolo, domenica ad Alzano. È innegabile: l’uomo ha più energia di una Duracell. Già annuncia un week-end di gazebo il 21 e 22 settembre «per chiedere democrazia», il garden party a Pontida il 15 ottobre e soprattutto «una grande giornata di orgoglio italiano» il 19 ottobre, con il popolo chiamato manifestare in piazza a Roma. Si è già capito dove martellerà «la Bestia», la macchina della propaganda social leghista: ancora una volta, il derby da narrare sarà quello del popolo contro l’élite, dell’Italia contro l’Europa, delle urne contro i giochi di palazzo. Le prospettive sono più incerte, però. E soprattutto non dipendono solo da Salvini e dalla sua capacità di entrare in sintonia con la pancia del Paese (che conta certamente più del suo cervello, almeno per quei radical chic che poi lo accusano di votare coi piedi). Dipende anche da cosa i giallorossi riusciranno a fare e soprattutto da quanto riusciranno a durare. L’opposizione paga se non si prolunga troppo, e oggi nella politica italiana un anno è un’eternità. Già i sondaggi, per la prima volta da molto tempo, mostrano una flessione della Lega. E nel partito ormai in molti si erano abituati a posare le terga su poltrone prestigiose. La fronda, per ora, è limitata alla minoranza, a quelli che pensano ancora al Nord e al problema settentrionale, non hanno ancora digerito il salto dalle erezioni bossiane alle ostensioni salviniane e vedono che l’autonomia rimane una chimera. Ma per tenere insieme il partito, per ricostruire dopo la prima sconfitta (tattica, ma pur sempre sconfitta) il mito del Capo infallibile, bisogna che la traversata del deserto non sia troppo lunga. Qualche mal di pancia già affiora. Per esempio, l’insistenza con la quale la testa leghista più fina, insomma Giancarlo Giorgetti, ripete che Salvini ha fatto tutto da solo la dice lunga. Chi però lo dà per politicamente morto sbaglia, e i tripudi sulla fine del Truce o la caduta del Capitone appaiono ottimistici, in ogni caso prematuri. Il Salvini di governo è niente rispetto al Salvini di lotta, che sarà dura e senza paura (già, era o non era un comunista padano?).