Andrea Malaguti

Alla fine dell’ultimo giro di giostra, nell’elegante taschino della sua giacca di sartoria, il premier ritrovato Giuseppe Conte, al posto della pochette infila nell’ordine – stretti e infelici – Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio. Formalmente sono stati il segretario del Pd e il Capo politico del Movimento 5 Stelle a mettere in piedi questo fragile e ancora non definitivo accordo per mandare avanti la legislatura. Ma il governo che dovrebbe nascere sulle ceneri dell’esecutivo più breve e sgangherato della storia della Repubblica, sarà guidato da un sempre più autonomo Avvocato del Popolo. Per altro più propenso a guardare a sinistra che a destra come dimostra una sua antica attrazione cuperliana. Non sarà facile il lavoro di Conte. Che dovrà ricucire il rapporto slabbrato con Di Maio, guadagnarsi la fiducia dei ministri dem e soprattutto guardarsi le spalle dal senatore semplice Matteo Renzi, nelle cui mani finiscono, di fatto, il joy stick per condizionare gli umori di Palazzo e il bottone per far saltare in aria – quando avrà pronta una sua squadra alternativa da presentare al Paese – il nuovo instabile universo giallorosso. Prima, però, Conte dovrà sistemare le pedine sulla nuova scacchiera. Non sarà semplice, perché il Pd reclama la vicepresidenza del Consiglio in solitudine (considerando il premier in quota M5S) e si oppone alla nomina di Di Maio non solo al ruolo di numero due, ma anche a quello di ministro dell’Interno. Nel confronto notturno a Palazzo Chigi è stata proprio la posizione del Capo pentastellato a esasperare la trattativa. È il governo delle retromarce, delle contraddizioni e della diffidenza quello che si sta formando su ispirazione di uomini apparentemente diversi da un punto di vista quasi antropologico come il Richelieu piddino Dario Franceschini e il Garante del Movimento Giuseppe Piero Grillo. Un governo tenuto assieme più dalla paura del nemico e dal terrore di perdere la poltrona, che da generici programmi che alludono a «ambiente, lavoro, Europa e ricerca». Uniti solo dagli sconfortanti risultati elettorali dell’ultimo anno, Pd e Cinque Stelle non hanno mai avuto chimica. La storia recente di Luigi Di Maio sembra una filastrocca per bambini: “Fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù, dai un bacio a chi vuoi tu”. Meno di 40 giorni fa registrava un video su Facebook nel quale diceva con altera determinazione: “Mai col Pd, mai con il partito di Bibbiano che in Emilia Romagna toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroschock”. Ha cambiato idea. Come ha cambiato idea sul decreto sicurezza-bis sul quale aveva messo la fiducia a inizio agosto. L’esperienza con il presidente Mattarella, di cui aveva chiesto l’impeachment un giorno salvo magnificarne le doti il giorno successivo, avrebbe dovuto insegnargli che è meglio essere schiavi dei propri silenzi che delle proprie parole. Ma l’impressione è che certi suggestivi slogan siano stati pronunciati prima ancora di capirne il significato. Non molto diverso il discorso per Zingaretti, assolutamente granitico nella sua incoerenza. Deciso a sfidare Lega e 5 Stelle nelle urne prima, risoluto nel rifiutare un governo Conte bis nel nome della discontinuità poi e risoltosi infine a bere l’amaro calice, e a rinunciare a qualunque tenue barlume di stile, in nome di un supposto bene superiore nel quale è il primo a non credere. Nell’incomprensibile logica al contrario in cui è precipitato il Paese, Pd e 5 Stelle continuano a millantare un sacrificio in nome del bene comune. Lo ripetono continuamente come infantili figurine di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll: “L’ho detto tre volte e se lo dico tre volte è vero”. In bocca al lupo. A loro, ma soprattutto a noi.