Andrea Mingardi
Ieri la Banca centrale europea ha ridotto i tassi sui depositi di dieci punti base, annunciando contestualmente che da novembre ricomincerà il suo programma di acquisto di attività finanziarie. Il presidente uscente Mario Draghi ha indicato la via a Christine Lagarde, che, del resto, vuole porsi in piena continuità col predecessore. A salutare la decisione con favore sono, inevitabilmente, i grandi debitori. Il tasso d’interesse è il prezzo del futuro: ci dice quanti euro di domani vale un euro di oggi. T assi a zero o negativi aiutano chi s’indebita e penalizzano chi presta denaro. Chi sono, un po’ ovunque, i maggiori debitori? Gli Stati, ovviamente. Solo in un contesto come questo è immaginabile che lo Stato italiano, nonostante un debito pubblico che supera il 130% del Pil, riesca a collocare titoli con interesse negativo. È per questo che le classi politiche festeggiano la scelta di Draghi. Ma, come ha scritto questo giornale, nel nuovo contesto la politica fiscale non potrà più solo fare assegnamento sul bazooka monetario. È una sfida sia per i Paesi del Nord che per quelli del Sud. È chiaro che per il governo Conte la mossa della Bce è preziosa. Significa che almeno parte delle nuove spese potranno essere finanziate a debito, continuando a procrastinare interventi di controllo della spesa, che sono sempre costosi sotto il profilo del consenso. Questo protrarsi delle politiche monetarie espansive si spiega in virtù dell’inflazione, ancora contenuta, che segnalerebbe una debolezza dell’economia dell’Eurozona. Ma i prezzi non stanno scendendo (come sottolineava Daniel Gros alcuni giorni fa): semplicemente salgono a passo più contenuto dell’obiettivo di inflazione del 2%. Ciò può essere dovuto a diversi fattori: la concorrenza internazionale, ad esempio, o l’innovazione tecnologica. Quando ragioniamo della debolezza dell’economia, tendiamo a pensare che tutta l’area dell’euro somigli all’Italia. Ma in buona parte dell’Eurozona i salari reali crescono del 2,5% l’anno e in un contesto di bassi tassi di disoccupazione. Nello stesso tempo, è abbastanza evidente che si stanno gonfiando i prezzi degli asset: dagli immobili alle attività finanziarie, basti pensare alla cavalcata infinita dei corsi di borsa. In alcune città europee ci sono già avvisaglie di forte disagio: i “locali” mal digeriscono le scorrerie immobiliari di ricchi e super-ricchi, che rendono gli acquisti impraticabili per tutti gli altri. Tassi permanentemente bassi o negativi influenzano l’assunzione dei rischi. Impieghi “tranquilli” non possono produrre rendimenti rilevanti e per questo si cercano strategie più rischiose. Gli effetti, insomma, non sono solo di sostegno dell’economia. Banche e assicurazioni non hanno vita facile. In Italia, il Movimento Cinque Stelle continua a parlare di separare banche d’affari e banche commerciali: con questi tassi, però, ciò significherebbe condannare queste ultime all’estinzione. L’effetto forse più preoccupante è sulla stessa idea di risparmio. Per rinunciare al proverbiale uovo oggi è necessario avere la ragionevole aspettativa che possa diventare una gallina domani: è improbabile lo si faccia, se invece ci si ritrova con tre quarti di uovo. Gli effetti sociali di un risparmio permanentemente non remunerato sono una grande incognita, con ripercussioni sulla stessa tenuta sociale delle nostre società. La scelta di Draghi e della Bce non è certo fatta a cuor leggero. Ma nel lungo periodo potrebbe avere conseguenze inaspettate. Dieci anni di politiche monetarie espansive ci hanno portato in acque inesplorate. Oggi sorridono i politici, qualcun altro potrebbe piangere domani.