Annalisa Cuzzocrea
In diciannove giorni di crisi, Luigi Di Maio non ha mai pronunciato la parola Pd. Non pubblicamente. Il capo politico del Movimento ha affrontato la crisi come una sfinge. «Non devo fare la prima mossa, devo scoprire il bluff di Salvini», diceva quando tutto era ancora confuso. Prima che Giuseppe Conte portasse la crisi in Parlamento e la rendesse irreversibile. Ed è andato avanti così, come un giocatore di poker che nasconde le sue carte, continuando ad alzare la posta. Proprio mentre il suo Movimento si divideva. Di Maio lo fa per rompere o perché crede che la corda non si spezzerà? Se lo chiede in queste ore il segretario dem Nicola Zingaretti. Se lo domandano anche esponenti dell’inner circle del vicepremier M5S, perché ci sono cose che non tornano: la richiesta del Viminale, prima di tutto. Una rivalsa nei confronti del leader della Lega, certo. Ma anche un segno di continuità con la faccia feroce nei confronti degli immigrati incarnata da sempre, tra i 5 stelle, proprio da Di Maio. «Farò quello che chiede il Movimento», ha detto il leader nel vertice che ha dato il via libera definitivo alla trattativa. Con i sì del ministro dei rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, del guardasigilli Alfonso Bonafede, del capogruppo alla Camera Francesco D’Uva, perfino del sottosegretario Vito Crimi. Ma con i dubbi di Max Bugani, socio di Casaleggio nell’associazione Rousseau e ultimamente vicino alle posizioni e alla voglia di voto di Alessandro Di Battista. E con quelli, a sorpresa, del capogruppo al Senato Stefano Patuanelli, che ha escluso fin dal primo momento un possibile ritorno con la Lega, ma secondo cui «il male minore per il Movimento sarebbe il voto». Nella casa dei vertici segreti, quella con vista Castel Sant’Angelo del braccio destro di Davide Casaleggio, Pietro Dettori, c’era chiaramente anche il manager. Che vorrebbe il voto su Rousseau per consultare gli iscritti già oggi, prima della direzione Pd. E prima di andare a parlare con il capo dello Stato. Per sancire, ancora una volta, la supremazia della piattaforma digitale, che gestisce e per cui incassa 300 euro al mese a eletto, nei meccanismi decisionali del Movimento. Tanto che l’assemblea congiunta dei parlamentari è stata convocata solo stasera alle 19, a voto già avvenuto. Se davvero andrà come vuole Casaleggio. Perché se Di Maio è favorevole, ci sono forze che frenano e vorrebbero ritardare il momento della consultazione on line: quella del presidente del Consiglio Conte, ormai forte dell’appoggio incondizionato e ripetuto di Beppe Grillo. E quella del presidente della Camera Roberto Fico, che si è sfilato per favorire una soluzione e che lavora da settimane perché l’accordo si chiuda. «Ai tempi dell’intesa con la Lega abbiamo sottoposto alla base il contratto già fatto — ricorda un deputato — non si vede perché in questo caso si debba fare diversamente». A giudicare dal monitoraggio dei social, il voto su Rousseau è un rischio. Serve tempo, un accordo blindato, magari un nuovo intervento di Grillo, per far sì che non sia un azzardo. Di certo, in questa fase è stato messo nell’angolo chi remava decisamente contro l’intesa. Di Battista non era al vertice decisivo di ieri, la sua linea è stata sconfessata nel momento in cui il garante ha scelto la carta Conte. Senza alcun cedimento alle istanze barricadere dell’ex deputato. Il senatore Gianluigi Paragone ancora ieri rilanciava senza convinzione, e con un piede fuori dalla porta: «Vogliono discontinuità? Mettiamo Stefano Fassina all’economia». La vicepresidente del Senato Paola Taverna è in ferie, all’estero col figlio, e non ha potuto dire la sua — come Dibba — se non per telefono. Così, la partita continua a condurla Di Maio. Sempre sotto traccia, lasciando che le dichiarazioni pubbliche le facciano Zingaretti e gli esponenti del Pd, rifiutandosi di dire a chiunque, anche ai deputati più vicini, cosa pensa sia meglio davvero. Aveva scommesso sulla tenuta dell’alleanza con Salvini, se non altro per l’intesa personale che si era creata tra i due un anno e mezzo fa. Non si aspettava il voltafaccia, nonostante in molti l’avessero visto arrivare, e ora non vuole esporsi finché tutto non sarà deciso. Quel che vuole però è ottenere il massimo per sé: restare vicepremier. E magari, se non capo del Viminale, almeno ministro dello Sviluppo, per portare avanti il lavoro intrapreso e mostrare dedizione a quanto fatto finora. «Mi rimetto alla volontà del Movimento», ha detto più di una volta negli ultimi giorni. Senza alzarsi dal tavolo però. Cercando di non lasciare spazio agli altri giocatori.