Augusto Minzolini
Nei tanti aneddoti che questa strana crisi sta regalando alla Storia patria, non poteva mancare la lezione sugli insegnamenti di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer che la grillina Laura Castelli, già viceministro dell’Economia nel primo governo Conte, ha impartito a distanza agli ultimi eredi del Pci. Ieri pomeriggio, nel Transatlantico semideserto che fa da scenario alle consultazioni del premier incaricato, la Castelli ha affrontato il tema spinoso della nomina di Giggino Di Maio a vicepremier del governo giallorosso: nomina che i 5stelle reclamano, accanto a quella di un vicepremier del Pd, e che, invece, Nicola Zingaretti e il suo inner circle, rifiutano. «Proprio non li capisco!» ha esordito: «Lo dice una come me che, essendo nata nella provincia di Torino, ha conosciuto la scuola comunista. Quella vera. E sono sbalordita: mi aspettavo che, seguendo la liturgia di quel mondo, Zingaretti e gli altri proponessero un ruolo di primo piano a Di Maio, nella logica di coinvolgere maggiormente un alleato riottoso nel governo. Invece cincischiano, non capendo che se dicono “no” al vicepremierato di Di Maio ci creano un enorme problema. Irrisolvibile. Alla fine Renzi, che non pone nessun problema su Luigi, dimostra di essere il più intelligente. Si capisce perché alla fine li frega tutti». Una grillina che spiega Togliatti agli ex-Pci è davvero una chicca. Ma questa strana crisi, sospesa in una strana dimensione tra passato e presente, che mischia le qualità del buon mondo antico con i vizi di una drammatica attualità, in cui le tattiche diventano estenuanti e i bracci di ferro su menate di ogni tipo si moltiplicano, si sta trasformando in un interessante esperimento sull’antropologia e la cultura politica dell’attuale classe dirigente. Offre siparietti da non perdere, vere e proprie scene «cult», che non avrebbero nulla da invidiare neppure ai ciak a tinte forti di Pulp Fiction. Immaginate che ieri, mentre nella sala stampa della Camera i capigruppo grillini si sforzavano di cambiare la narrazione di una crisi vissuta sulla «voglia di poltrone», qualche metro più in là, nell’androne di Montecitorio, Rocco Casalino, portavoce del premier, si lasciava andare ad una battuta che è di per sé una storia: «Io dal mio studio di Palazzo Chigi non ho portato via neppure le penne. Ero sicuro che saremmo restati. Come si dice…? Mi sono incollato lì!». Musica per le orecchie di un Salvini che da giorni intona la litania sul complotto preordinato. Ma non è così, visto che i presunti complottisti sarebbero capaci di annegare nel bicchier d’acqua di un diverbio su un vicepremierato. E in fondo, a dirla tutta, la Castelli, descritta da molti come una sprovveduta, una dose di ragione ce l’ha. Almeno lei ha fatto tesoro delle storie origliate dei tempi passati. Si ricorda sicuramente, ad esempio, che Berlinguer non battè ciglio quando il vertice scudocrociato (fu l’ultima decisione di Aldo Moro) gli propose Giulio Andreotti, capo della destra dc, come premier del primo governo di solidarietà nazionale. Un modo per coinvolgere gli ambienti e i mondi più lontani dall’impresa di un governo che nasceva grazie all’astensione del Pci. Insomma, il pragmatismo democristiano e la realpolitik comunista, ci avrebbero messo un secondo a risolvere la disputa su Di Maio. Invece, sono giorni che si parla solo di quello. Eppure certi ruoli sono solo una fotografia della realtà. Se un domani, nato il governo, Giuseppe Conte dovesse convocare un vertice di maggioranza per mettere pace tra gli alleati, chi chiamerebbe in rappresentanza dei grillini? Chi dovrebbe garantire il compromesso, la mediazione per i 5stelle? Naturalmente Di Maio: e allora di che parliamo?! Tant’è che ieri i capogruppo del movimento hanno convocato una conferenza per dire con la voce di Stefano Patuanelli che «chi colpisce Di Maio, colpisce ognuno di noi». Messa così, è difficile che la soluzione sia diversa da quella che pregusta il premier Conte: o due vicepremier, o nessuno. Del resto, il radicale Riccardo Magi che lo ha incontrato ieri nelle consultazioni, lo paragona – con una buona fetta di fantasia – già all’«inossidabile Andreotti». Un politico pronto a spiegare anche l’inspiegabile: «Se il governo precedente era anti-europeo? Non è vero – ha risposto Conte ai suoi interlocutori – : mentre Salvini faceva i suoi proclami, io salvaguardavo i rapporti a livello internazionale». Ad un personaggio del genere la vicenda dei vicepremier appare come un falso problema. Lo ha spiegato pure al suo staff e magari a Zingaretti: «Per favore non datemi la grana di dover mediare con i 5stelle! Se ai vertici ci sono solo io, insieme a Franceschini e Orlando, poi toccherebbe a me la fatica di convincerli. Sarebbe meglio che lo facesse Di Maio, sul piano politico e per la mia salute!». Per cui alla fine, gira che ti rigira, è più probabile che i vicepremier siano due che nessuno. Del resto la politica ha una sua logica stringente: puoi ostacolarla, non fermarla. Di fronte agli errori o si cambia, o si paga. Salvini ha pagato caro l’azzardo che il segretario del Pd avrebbe potuto garantirgli le urne, accettando tranquillamente l’idea di andare incontro a una sconfitta e regalargli il Paese. Zingaretti ha dovuto piegarsi alla proposta di un premier come Conte, per evitare elezioni che gli costerebbero pure la segreteria del Pd. E sempre Zingaretti, se vuole un governo che duri, deve inglobare Di Maio, un’operazione che per andare in porto può richiedere un vicepremierato. Il buon mondo antico dimostra che in politica è meglio piegarsi che spezzarsi: lo sapevano i democristiani di una volta, come i comunisti. E ne sono consapevoli oggi gli eredi più gelosi delle tradizioni del vecchio Pci. Osserva Loredana De Petris, capogruppo di Liberi e Uguali al Senato: «Su Di Maio, Zingaretti per la terza volta trasformerà il suo no in un sì». Mentre Nico Stumpo, dello stesso partito: «In sezione quando ero piccolo mi hanno spiegato, che l’alleato più distante e infido, va avvolto e lusingato. Togliatti docet». Già, in un mondo normale quello dei vicepremier dovrebbe essere un falso problema o un problema già risolto. Le questioni sono altre: quale tecnico andrà al Viminale, il capo della polizia Gabrielli o il prefetto Morcone? Chi diventerà il nuovo commissario italiano a Bruxelles, Gentiloni o del Rio? Questa è la ciccia per cui vale accapigliarsi, insegnavano i democristiani e i comunisti di una volta. «Io sono fiducioso – è il pronostico di Matteo Renzi -: sono sicuro che la legislatura durerà fino al 2023. Il governo? Dipenderà dalla qualità dei ministri. Se il governo rischia di saltare per la storia dei vicepremier? Ma siamo seri, se succedesse un rutto li seppellirebbe!».