Augusto Minzolini

Il primo estremo del triangolo delle Bermude, dove rischiava di perdersi la crisi di governo, è la scarsa costumanza che i 5stelle hanno con le logiche della politica. In quel mondo si rischia puntualmente la rissa, per cui un piccolo gradino si trasforma in un baleno in un ostacolo insormontabile. Basta guardare al lessico usato in uno scambio in chat tra Elena Fattori e Paola Taverna. «Paola al tuo livello – esordisce la prima – non mi ci metto. Parla pure da sola così ti qualifichi per quello che sei. Io ti ignoro come il ronzio di una zanzara». Risposta della Taverna: «Tu al mio livello non ci puoi arrivare, per questo trasudi bile da tutti i pori». Chiosa finale della Fattori: «È sicuro che al tuo livello è impossibile per la sottoscritta. Ma da ora per me non esisti». Il confronto del «politicamente parlando» tra i grillini si svolge sempre su questi toni, sfiora sempre lo scontro. Così Luigi Gallo dice a muso duro al Dibba: «Faresti bene a star zitto». Mentre Roberta Lombardi, con una punta di malizia, rivolta a Giggino Di Maio, che rischia di non essere vicepremier, osserva: «Sono sicura che anteporrai l’interesse del Paese al tuo destino personale». Da queste parti la mediazione è un’impresa. Il secondo angolo, invece, è la «latitudine» rappresentata dalla lentezza con cui Nicola Zingaretti gioca la partita con il Pd e, pure da queste parti, i personalismi interni abbondano. Dal punto di vista politico la rotta verso l’accordo è stata decisa da giorni. Da quando, sabato, Dario Franceschini ha spiegato al segretario: «Nicola se non si fa questo governo e lasci campo libero a Salvini per sconfiggerci alle elezioni e prendersi il Paese, ne risponderai “in toto”». Non è difficile indovinare che il prezzo da pagare, nella logica del «grande elettore» di Zingaretti, sarebbero le dimissioni da segretario del Pd. L’altro passaggio è stato quando domenica, per far digerire la premiership di Conte, Matteo Renzi ha fatto sapere che una rottura non motivata delle trattative con i grillini lo avrebbe spinto in caso di elezioni a presentare una sua lista: «Se poi prendo il 4, il 6 o il 10%, a me va bene lo stesso, ma il Pd rischia di perdere tutti i collegi». Per cui al netto di cantanti e attori, è tutta la sinistra che, con lusinghe e minacce, si è mossa per spronare Zingaretti: da Franceschini a Delrio, da Veltroni a Enrico Letta; e ancora, vecchi nemici come Prodi e D’Alema si sono ritrovati sullo stesso versante, come pure avversari degli ultimi tempi come, appunto, Franceschini e Renzi. «Io e Dario – scherza quest’ultimo – ci detestiamo amabilmente, ma siamo professionisti e se nel campionato interno ci facciamo gli sgambetti, ai mondiali, ogni quattro anni, giochiamo con la stessa maglia». Solo che Zingaretti all’inizio era poco convinto, ha sempre avuto il suo staff dubbioso se non avverso all’accordo e Paolo Gentiloni nettamente contrario. Il predecessore di Conte a Palazzo Chigi giorni fa ha messo in dubbio la sua stessa presenza nel governo: «Dopo quello che mi ha fatto Renzi – ha detto Gentiloni – anche se me lo chiedi non entro». Ieri ha messo l’ultima mina: «L’idea di un Conte con due vicepremier non può andare». Una trappola dietro l’altra. Il terzo estremo del triangolo è dato dalla «longitudine» che riguarda il futuro di Di Maio, che tenta di difendere, o inventarsi, il suo ruolo. Zingaretti lo vorrebbe semplice ministro, mentre il leader grillino vorrebbe mantenere, è legittimo, i gradi di vicepremier. Tant’è che per aver dato fin dall’inizio l’idea di una trattativa tutta in discesa, Di Maio ha criticato pure l’«elevato» per antonomasia, cioè Grillo. «Beppe – si è confidato con i suoi – non conosce i tempi della politica». Giggino, in altre parole, avrebbe preferito un atteggiamento meno accondiscendente fin dall’inizio, anche se era il primo ad essere consapevole che l’epilogo era segnato. Con i suoi era stato chiaro già venerdì scorso: «Anche se volessimo tornare ad un’intesa con la Lega non avremmo i numeri. Una parte dei nostri gruppi parlamentari si staccherebbe e certo nessuno di noi si può permettere di tirare a bordo la Meloni, come ipotizza Salvini». L’altro ieri, poi, nella riunione a casa di Pietro Dettori, davanti a Castel Sant’Angelo, Di Maio ha quasi sfidato il suo «inner circle»: «Anch’io non sono entusiasta di un governo con il Pd, ma qualcuno ha in mente un’alternativa?». Silenzio tombale. Già, scartate le elezioni per non essere decimati, i grillini non hanno un’altra prospettiva. Per cui a Di Maio non è rimasto che tergiversare nella trattativa tentando di strappare il più possibile. Solo che essendo tutti i principali attori della «crisi» poco avvezzi a questo genere di cose – o per scarsa esperienza, o per dati caratteriali – in questi giorni si è spesso rischiata la rottura. Il varo del «Conte bis» sta andando avanti, solo perché, fatti due calcoli, tutti si sono accorti che, tirando in ballo i Promessi Sposi, a differenza di quello tra Renzo e Lucia, il matrimonio tra Nicola e Giggino «s’ha da fare»: l’annullamento alla vigilia delle nozze sarebbe pericoloso per entrambi. Tanto più che l’officiante, cioè Giuseppe Conte, a differenza di Don Abbondio, ha una voglia matta di celebrare il matrimonio: specie ora che ha ricevuto le benedizioni del Papa, di Donald Trump e di Ursula von der Leyen. Ecco perché tutti gli ostacoli, gira che ti rigira, sia pure con qualche ammaccatura e graffio, vengono superati. Il pomo della discordia, cioè la casella del ministro dell’Interno? Probabilmente lì andrà il capo della polizia, Franco Gabrielli, un personaggio su cui Salvini non potrà dir nulla: «è fatta», è il pronostico sicuro di Renzi. E i vicepremier? «Conte ha fatto una bella mossa – racconta il sottosegretario alla Difesa grillino, Angelo Tofalo – o se ne fanno due, uno nostro e uno del Pd; o non se ne fa nessuno». Magari, per colpa del dilettantismo o dei personalismi, la prospettiva di una rottura non è ancora del tutto scongiurata, ma non si può rompere in maniera plateale sulle «poltrone» e, soprattutto, la forza delle cose porta alla nascita di questo governo. Anche perché c’è chi comincia ad intravedere l’ombra di qualcuno dietro la «folle crisi» voluta da Salvini. «Ne abbiamo discusso – osserva uno dei consiglieri di Zingaretti, Roberto Morassut – dietro quella mossa c’è il consiglio di Bannon: un’operazione studiata per far mettere radici al sovranismo nel nostro Paese». Già, Salvini, la vittima designata di questo governo. Il leader leghista teme come la peste l’introduzione di una nuova legge elettorale proporzionale; nel contempo, almeno a parole, si consola con un’unica nota di merito. «La Storia – ha detto ai suoi – ci sarà grata. Nell’alleanza con noi i grillini hanno perso i voti di sinistra, mentre con il governo con il Pd perderanno i loro elettori di destra. Alla fine ci saremo liberati di questo vulnus democratico che sono i 5 stelle!». Cioè di quelli con cui, neppure tre mesi fa, giurava di voler governare per 5 anni.