Carlo Bertini
L’ assedio produce una svolta già domenica sera, quando al Nazareno il segretario comincia a cedere. La diga eretta dal segretario per evitare almeno un Conte bis si sgretola ieri quando di fronte al pressing di tutti i padri nobili, dell’Europa e ai segnali di un placet del Colle, Nicola Zingaretti alza le braccia, «Come si fa a dire di no?». Alza le braccia in segno di resa obtorto collo, anche perché dall’altra parte il suo mentore e principale sostenitore, Paolo Gentiloni, non condivide la scelta, a questo punto obbligata, che il leader ha dovuto prendere interpretando la volontà maggioritaria del partito. Una presa di distanze, quella dell’ex premier, con una ragione tutta politica, in quanto la sua analisi è che questa sia un’operazione fragile politicamente. Convinzione dettata dalla diffidenza estrema verso il mondo pentastellato. Ma a parte il presidente del partito, figura chiave del mondo che ruota attorno a Zingaretti, tutti gli altri big sono schierati: da Franceschini, a Orlando, da Delrio ai renziani doc come Marcucci. Sale renzi, scende il segretario È infatti Renzi, a detta di molti nel Pd, non solo dei suoi sostenitori, ma anche dei suoi detrattori, il vincitore di questo round: non solo per aver aperto la breccia di un accordo con i 5stelle, ma per aver per primo suggerito di non porre veti su Conte. Un Renzi di nuovo sugli scudi, al punto che gli stessi sodali di Zingaretti sono spaventati dall’idea che, passata la buriana, qualcuno possa porre il tema della leadership del Pd per indurre Zingaretti alle dimissioni. O addirittura che sia lo stesso segretario a siglare l’intesa e un minuto dopo a dimettersi in stile Bersani. Uno scenario drammatico, smentito seccamente, che cozza con la piega che prenderanno gli eventi una volta partito il governo giallorosso. Ma che rende bene l’idea del clima plumbeo che avvolge il gruppo dei zingarettiani doc. Il segretario fin da ieri mattina appariva però rilassato e non depresso con i suoi tanti interlocutori e nelle sue varie conversazioni telefoniche. E a parte qualche “impappinatura” davanti le televisioni dopo il summit con Di Maio, che tradiva ombre nei suoi pensieri, riusciva a sfoderare il suo solito sorriso per infondere ottimismo. Due big nella stanza dei bottoni Ma i resoconti di quel primo round col capo Cinque stelle sono tempestosi: Di Maio chiede non solo che vi siano due vicepremier e uno sia grillino, ma di poter assumere lui la guida del Viminale, rivendicando anche la poltrona di commissario Ue per i 5Stelle. Una sequela di pretese che lascia basito Zingaretti che infatti torna al partito e chiede un incontro tra delegazioni: per far capire a Di Maio che Conte «non è qualcuno venuto dalla Luna», ma uomo ormai ascrivibile al Movimento. Alle nove di sera va dunque in scena il braccio di ferro sulla squadra e sulle caselle: e lo scontro più forte è sui ruoli di Zingaretti e Di Maio e sui vicepremier. I grillini ne vogliono due: quello del Pd sarà Orlando, oppure Franceschini, se l’ex guardasigilli ricoprisse il ruolo chiave di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. O viceversa. Zingaretti non vuole entrare nella squadra a nessun titolo. Ma non solo: se Di Maio vuole la conferma per sé, per Bonafede e Fraccaro, Zingaretti rivendica i ministeri chiave: Esteri, Economia, Interni e Sviluppo Economico (che andrebbe alla vicesegretaria Pd Paola De Micheli). Ma la guerra social già imperversa tra i due fronti. Prodromo di ciò che potrà accadere tra qualche tempo per i motivi più disparati. Un cumulo di fattori potrebbe creare la tempesta perfetta, ovvero lo stop delle trattative, drammatizzano il quadro gli uomini di Zingaretti, convinti che Di Maio stia lavorando per far saltare tutto alzando la posta ogni volta. Cosa a cui nessuno crede nei due partiti, dove tutti danno per scontata la partenza di questo governo. Tra mille conflitti, antipasto di quel che verrà.