Carlo Bonini

Cosa ci dice l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello? Se si preferisce, cosa ci dice oggi più di quanto non ci abbia detto ieri, ora che gli atti di indagine su quella notte di sangue non sono più coperti da segreto? Molto, a ben vedere. Il 29 luglio scorso, prendendo la parola ai funerali, il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, usò parole urticanti: «Evitiamo al nostro Mario la dodicesima coltellata». In quella considerazione era comprensibile e condivisibile l’invito a non sporcare la memoria e il sacrificio di un carabiniere con ipotesi sulle circostanze della sua morte che avrebbero potuto ucciderlo una seconda volta, sfigurandone la reputazione e dunque il ricordo. O, peggio, trasformandolo in artefice sciagurato del proprio destino. Ma in quell’invito – il comandante ce ne darà oggi atto – c’era anche un riflesso pavloviano figlio di una cultura antica. Proprio quella che, per giunta, proprio il generale Nistri ha aggredito come nessuno prima di lui aveva fatto nel caso Cucchi e in cui, anche grazie a lui, una nuova leva di ufficiali e militari ha smesso di riconoscersi. Quella di un’istituzione che, per troppo tempo, ha confuso l’obbligo di trasparenza come un atto di debolezza. E l’evidenza dei propri errori non come un momento capace di chiamare alle proprie responsabilità i singoli e sanare uno strappo nella fiducia dei cittadini, ma come un processo all’istituzione tout court. Bene, è oggi evidente dalle carte dell’inchiesta della Procura di Roma che l’omicidio di Cerciello non nascondeva nessun inconfessabile segreto, nessuna manipolazione del quadro che accreditasse una verità fondamentalmente diversa, nella sua sostanza, da quella che appariva (è documentalmente provato che Cerciello fosse regolarmente in servizio e ignorasse l’identità dei due americani che lo avrebbero aggredito e del loro broker trasteverino). E tuttavia il giornalismo (a cominciare da quello di Repubblica) aveva colto allora quello che oggi è provato dagli atti. Un baco, definiamolo così, nella ricostruzione dei fatti della notte tra il 25 e il 26 luglio. Che lasciava la verità monca del suo presupposto, tutt’altro che irrilevante: le circostanze, diciamo meglio il contesto, in cui Cerciello era stato accoltellato a morte. Una su tutte. Che quella notte fosse disarmato. E che, come lui, fosse disarmato il suo collega, il carabiniere Andrea Varriale, al momento dell’agguato. Oggi sappiamo che, schiacciato dal timore di dover rispondere disciplinarmente per aver lasciato l’arma di ordinanza in caserma, Varriale aveva inizialmente mentito omettendo quella circostanza. Così come aveva dato indicazioni fuorvianti ai suoi stessi colleghi del Nucleo investigativo sugli aggressori, fino al punto da confondere due americani con dei “maghrebini”. Mentendo, Varriale proteggeva se stesso e consegnava alla sua catena gerarchica una ricostruzione che avrebbe tenuto lontane le polemiche. E che sarebbe stata anche fissata nell’informativa alla magistratura. Ma la sua bugia, come era prevedibile, non ha retto alle domande dei pubblici ministeri. Varriale si è convinto a dire la verità ed è dunque oggi alla luce del sole la questione che allora era stata omessa. Il baco, appunto. Che, all’osso, può essere riassunto così. Cerciello è stato vittima di una “prassi operativa” che, a Roma, come in tutto il resto del Paese, vorrebbe tenere insieme due cose che, insieme non riescono a stare. Soprattutto in estate. Parliamo di carabinieri in servizio in borghese nelle piazze di spaccio regolarmente posti di fronte a un’alternativa del diavolo: tradire la propria identità mostrando una pistola sotto una maglietta e dei bermuda. O, al contrario, accettare il rischio di muoversi disarmati a vantaggio dell’effetto sorpresa. Una banalità, qualcuno potrà dire. Che banale tuttavia non è, come l’omicidio di Cerciello dimostra. Dirlo, non è né vuole essere una dodicesima coltellata. Piuttosto, un omaggio al suo sacrificio. Perché non si ripeta.