Alla domanda: «Come sta?», Pier Luigi Bersani risponde: «Meglio». Alla festa di Articolo Uno, alla “Città dell’Altra economia”, tra stand bianchi che sanno di vecchie feste dell’Unità, l’ex segretario pd lancia una miccia nel campo di Nicola Zingaretti: «Basta inseguire un centro che è l’araba fenice, serve un progetto largo per combattere la destra, che è ancora qui». E a Matteo Renzi dice: «Fuoco amico? In questo è campione mondiale». Cosa pensa di Italia Viva? «Renzi insegue la sua vocazione con altri mezzi. Che avesse in testa un partito personale, orientato al centro, per tagliare ogni ponte perfino coi simboli della sinistra, lo ha dimostrato negli anni in cui è stato nel Pd. Ha aperto un varco alla destra nei ceti popolari, e quella destra ha buttato giù una a una le nostre roccaforti. È stata questa l’origine del nostro strappo, non si azzardino a paragonarlo ad altri». Renzi ha lasciato il Pd dopo averne perso la leadership. Lei ha fatto lo stesso: lo ha guidato, è andato in minoranza, poi ha lasciato, rinunciando a lottare da dentro. Perché non è paragonabile? «Se non esiste più la politica, se stiamo giocando a Risiko, posso essere d’accordo. Ma quando uno vede, dal 2014 in poi, che si stanno segando pezzi dei rapporti con la nostra constituency e che c’è una destra in arrivo. E vede che si continua a fare dei 5 stelle il nemico principale, e che non se ne può neanche discutere…». Perché, dice: non se ne poteva discutere? «Io e altri siamo stati buttati fuori dalla prima commissione della Camera, senza una telefonata, per gli emendamenti all’Italicum. Accetto critiche alle mie scelte solo da chi in quell’occasione non è stato zitto». Renzi ha detto di essere stato vittima di fuoco amico. «Se lo dice lui, che è il più grande esperto mondiale di fuoco amico! Sono stato ministro 7 anni, 4 alla guida del Pd, nei tre anni di governo renziano sa quante volte sono intervenuto alla Camera? Una, tre minuti, per la commemorazione di Renato Zangheri». È un bene o un male che abbia lasciato il Pd? «Non vedo il problema. Guarda a un centro che per me è l’araba fenice di Metastasio: “Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Quella cosa lì non c’è, non esiste. Invece, il centrosinistra e le sinistre varie, davanti alla novità enorme di questo governo, cosa fanno? I popcorn? Stanno a guardare?». È quel che sta facendo il Pd? «Lo temo. Un governo non può vivere nell’iperuranio. Bisogna determinare un ambiente politico che sia coerente con questo passaggio. In Italia non esiste la paratia di una destra liberale. C’è invece una destra che può trascinare il Paese in una deriva regressiva, facendolo diventare più povero e autoritario». Come si costruisce l’alternativa? «Se cerchiamo di farlo con i vecchi attrezzi, le soluzioni organizzative, le porte girevoli, ci arriviamo l’anno del mai. Serve un gesto politico forte e generoso. Un passaggio creativo. Senza inseguire equilibrismi centristi». Da quando è nato, il Pd dice di volersi aprire. Poi finisce solo per dividersi. «Serve una chiamata molto larga a sensibilità ambientali, sociali, civiche. E poi un tavolo, una svolta programmatica che ci aiuti a rompere il muro tra elettorato di centrosinistra ed elettorato 5 stelle. Con umiltà e con un ammonimento a loro per il disastro con la destra». Un nuovo soggetto? «Per me sì. Ma lo decide il percorso. Che sia un’alleanza, una federazione, o qualcosa di completamente nuovo, deve venire da lì. Articolo 1 vuole essere il fermento di questo processo, come si vede in questa festa, dove abbiamo invitato Conte, Tsipras, Marco Bellocchio». Quindi nel Pd non rientra? «Vede, con una domanda del genere siamo ai vecchi attrezzi. Il Pd ha lanciato la costituente delle idee, cominciamo da lì. E speriamo non sia solo delle idee». Perché le scelte di Zingaretti non la convincono? «Perché fin qui il campo largo è stato interpretato come stretto, c’è solo il Pd e qualche cespuglio intorno». Il Pd dovrebbe rinunciare al suo nome, alla sua storia? «Non sto chiedendo questo, chiedo solo generosità e consapevolezza del fatto che se non riusciamo a fare qualcosa di nuovo, ci troveremo al governo la destra del ddl Pillon e delle donne incinte lasciate sui barconi. C’è un popolo disperso che, a differenza dell’araba fenice, esiste». Come si va a prendere? «Quella che chiamiamo diseguaglianza è un processo di disarticolazione. Sarà sempre meno vero che abbiamo una sanità, una scuola, un fisco uguali per tutti, eguali diritti per i lavoratori. Il grande messaggio è: ricomposizione. Sottotitoli: i contratti firmati dalle sigle sindacali più rappresentative devono valere per tutti. Così la finiamo con le centinaia di contratti pirata, con le migliaia di finte cooperative che stanno consentendo quasi lo schiavismo. Sul fisco: via tutti i forfait, serve progressività e generalità delle imposte. La sfida più grande dovrà essere comporre la battaglia per il clima con gli interessi e le sensibilità dei ceti popolari». Lei è indulgente con i 5 stelle, che hanno un modello di partito autoritario e sono capaci di incarnare con uguale scioltezza slogan sul reddito minimo o sulle Ong taxi del mare. «Senza paternalismi, in politica vale quel che vale in pedagogia: credili migliori, diventeranno migliori. Nel 2013 il Pd e i 5 stelle hanno avuto il 25 per cento, noi un pelo avanti. Poi non vedi la destra, ne fai il principale nemico, e dopo 5 anni il Pd va a meno 7 e loro a più 7. Dopo i 5 stelle fanno l’accordo con la destra e dimezzano i voti. Mi chiedo e chiedo: non ci sarà una ragione contigua tra questi abbandoni? Si è concesso troppo, per un verso e per l’altro, a umori di destra. Serve un programma univoco che possa unire questi due popoli». E si può fare con Conte premier? «Gli do un consiglio non richiesto. Per un bel po’ il concetto di crisi di governo sarà una tigre di carta, e davanti a una tigre di carta si può morire solo di spavento. Perciò, al meglio della mediazione, si tira dritto».

«Sono lieto che, con la formazione di questo nuovo governo, l’Italia sia tornata in campo in Europa. Il momento è propizio», dice il presidente della Repubblica Federale Tedesca, FrankWalter Steinmeier, che domani arriva a Roma per una visita di Stato di due giorni. Nell’intervista esclusiva al nostro giornale, Steinmeier si dice certo che «la stretta cooperazione europea tra Italia e Germania sarà necessaria e costruttiva» e indica come obiettivo primario del suo viaggio quello di «dare nuovo impulso a questa collaborazione». Accogliendoci nel suo ufficio a Palazzo Bellevue, Steinmeier spiega cosa definisce il rapporto tra Italia e Germania in Europa: «Per quanto possiamo essere diversi, noi tedeschi e italiani abbiamo tratto la giusta conclusione dagli orrori del fascismo, del nazionalismo e delle due guerre del secolo scorso. La giusta conclusione è la nostra Europa unita. Italia e Germania sono tra gli Stati fondatori dell’Ue. Insieme abbiamo investito nel corso di tanti decenni tutta la nostra volontà, la nostra energia e le nostre forze per unire quest’Europa e non ricadere mai più nei conflitti del passato. Insieme abbiamo poi creato da questo progetto di pace un’unione politica che ci rende forti laddove uno Stato da solo è troppo debole. Ma non v’è dubbio che l’Ue stia attraversando una fase difficile e abbia urgentemente bisogno di Stati membri che preservino e ristabiliscano la sua capacità di agire. Proprio in questo momento—all’inizio di un nuovo mandato della Commissione — vengono ridefinite le basi politiche e finanziarie». Lei ha un ottimo rapporto personale con il presidente Mattarella. Cosa lo caratterizza? «Il presidente Mattarella è senz’altro il capo di Stato che più ho incontratoalivello mondiale. Ci siamo già visti ben cinque volte. E sono felice che ci rivedremo ora nel corso della mia visita a Roma e anche a Napoli. Il presidente della Repubblica ed io abbiamo molto in comune: non solo la visione condivisa dell’Europa e la convinta volontà di preservare la coesione europea, ma anche lo stesso sguardo verso i nostririspettivi Paesi.Osserviamo con preoccupazione le lacerazioni che innegabilmente ci sono, tra regioni, tra generazioni, tra ricchi e poveri. Entrambi investiamo molto tempo e forze per mantenere la coesione nei nostri Paesi. Ci opponiamo entrambi all’imbarbarimento del linguaggio e alla polarizzazione in politica. Io e il presidente Mattarella ci adoperiamo per la democrazia, sapendo che non può mai vivere senza controversie, ma che nelle controversie devono essere rispettate le regole del gioco. Siamo entrambi persone che sostengono la ragione, il rispetto, il senso della misura e la moderazione». In due recenti occasioni, a Fivizzano e in Polonia, lei ha confermato di prendere molto sul serio la responsabilità storica della Germania e i crimini tedeschi nella Seconda guerra mondiale. Eppure la Polonia rilancia il tema delle riparazioni. È una richiesta fondata? «Non c’è un futuro positivo senza confronto con il passato. Pertanto, proprio in questo periodo mi dedico alla commemorazione dell’ottantesimo anniversario dell’inizio della guerra e al ricordo delle terribili stragi commesse da SS e Wehrmacht in Toscana. Per tale motivo era così importante per me la visita a Fivizzano. Insieme a quelle precedenti a Civitella, alle Fosse Ardeatine a Roma e alla Risiera di San Sabba voglio mostrare che la nostra commemorazione comune per me è più del riconoscimento della colpa tedesca. È soprattutto il desiderio di rivolgere verso il futuro il cammino di riconciliazione che Germania e Italia hanno intrapreso insieme. La Commissione storica italo-tedesca, che istituii insieme al mio omologo italiano nel 2008 nella mia veste di allora ministro degli Esteri, e il Fondo italo-tedesco per il futuro fondato in seguito sono molto importanti a tal fine. Nel frattempo sono stati realizzati oltre 50 progetti della memoria in Italia. Questo è il modo giusto di affrontare il passato: non considerarlo concluso, bensì come una responsabilità comune per un futuro migliore. Spero che potremo proseguire questo cammino anche con la Polonia senza perderci in un dibattito sulle riparazioni proiettato all’indietro». Il tema migrazioni divide l’Europa. La linea dura del precedente governo italiano, impersonata dall’ex ministro degli Interni Salvini, ha portato a fasi di tensione con la Germania. Come si risponde a questa sfida? «L’Italia e al più tardi dal 2015 anche la Germania hanno fatto molto per i migranti giunti attraverso il Mediterraneo. È quindi ancora più deplorevole che i due Paesi si siano allontanati l’uno dall’altro, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, proprio nella questione dei rifugiati. La situazione nel Mediterraneo non è migliorata, come dimostra già il solo numero di morti. Sono certo che con il nuovo governo italiano ci siano i presupposti per lavorare a soluzioni comuni. Ciò che per me è veramente fondamentale è che non dobbiamo lasciare l’Italia da sola in tutto questo. Sono fiducioso che la nuova Commissione europea si adopererà con risolutezza per trovare soluzioni nella questione migratoria. Spero che in futuro verrà dato più sostegno che in passato agli sforzi comuni europei che alleggerirebbero il peso che grava sull’Italia. Desidero aggiungere che la nostra cooperazione non si limita alla questione dei migranti. La questione migratoria è strettamente connessa con la Libia, dove la situazione richiede un nuovo sforzo europeo se si vuole bloccare l’erosione dello Stato. Italia e Germania, insieme alla Francia, potrebbero lanciareepreparare una tale iniziativa». Le recenti elezioni regionali in Brandeburgo e Sassonia hanno mostrato una divisione profonda nell’elettorato. Trenta anni dopo la caduta del Muro, Est e Ovest della Germania sembrano più lontani di quanto si pensasse. Cos’è andato male nella riunificazione? «A Est eaOvest apprendiamo che l’unità tedesca è molto più di una decisione politica presa una volta. Si tratta di un processo che non si è concluso nemmeno dopo 30 anni. La riunificazione non significa solo creare condizioni economiche equiparabili in tutta la Germania. A 30 anni dalla riunificazione tedesca, siamo grati ai combattenti per la libertà dell’ex Ddr tanto quanto lo siamo ai nostri vicini europei che l’hanno resa possibile. E ci rendiamo conto che c’è ancora molto da fare. Nei primi anni del processo di unificazione abbiamo ignorato alcune cose che per la popolazione della Germania dell’Est erano importanti almeno quanto la sua situazione economica: le fratture nelle biografie e il difficile nuovo inizio che l’unità tedesca ha significato per molte persone. Le loro storie personali non sono ancora entrate a far parte del “noi” comune con la stessa ovvietà con cui ciò è avvenuto invece per le storie della Germania occidentale. C’è molto da recuperare. Quale presidente federale mi impegno per farlo insieme». È un fatto che nell’Est un elettore su quattro vota un partito di estrema destra nazionalista. «Le democrazie liberali dell’Occidente vengono contestate in molti Paesi. Forse inGermania abbiamo sperato troppo a lungo che gli sviluppi verificatisi altrove non si manifestassero anche da noi, speravamo di essere al sicuro anche grazie alla nostra forza economica e alla stabilità che ne consegue. È evidente che non è così. Anche da noi in Germania, parte della popolazione tende ad esprimere il malcontento nei confronti del governo, dei partiti di governo e dei rappresentanti delle istituzioni democratiche solo attraverso una sfrenata indignazione e critica del sistema. Il linguaggio è diventato più implacabile e spietato nel dibattito politico, soprattutto nei social media. Sono abbastanza realista da sapere che questo non si può cambiare da un giorno all’altro». Qual è il compito della classe politica democratica di fronteaquesta ideologia? «Avremo bisogno di molto tempo, energia e anche impegno personale per riguadagnare la credibilità della politica democratica laddove è andata persa tra gli elettori. Si cominci con la politica che si occupa dei problemi reali della genteeoffre soluzioni dove sono urgentemente attese. E a mio avviso si continui con la presenza dei rappresentanti politici dove non si fanno vedere da molto tempo. Questo significa andare via dalla capitale e recarsi invece nelle regioni. Dobbiamo convincere di nuovo la gente che l’affermazione della democrazia vuol dire anche vivere nella diversità. Questa è la particolarità delle società aperte: che le persone s’incontrano con le loro differenze, con le loro peculiarità e anche con le loro ostinatezze. Tutti hanno il diritto di essere ascoltati, ma non tutti possono aspettarsi che le loro opinioni e posizioni alla fine si riflettano in decisioni politiche. Dobbiamo promuovere la consapevolezza che la qualità della democrazia sta proprio nell’organizzare l’equilibrio tra i diversi interessi all’interno della società, che la democrazia non può assolutamente sopravvivere senza compromessi».

A Zingaretti, Renzi le ha detto addio… «Io un po’ me lo aspettavo per l’atteggiamento di vicinanza ma non partecipazione alla vita del partito che non ho mai compreso fino in fondo. Mi dispiace, e penso che sia un errore dividere il Pd, ma al tempo stesso credo che ora il nostro compito sia molto chiaro: è quello di portare nel futuro il Pd. Anzi, meglio, il Pd che può ricostruire una speranza per l’Italia». Che vuol dire? «Delle cose molto chiare. Primo, con il governo, realizzare con i fatti quella svolta annunciata che l’Italia si aspettava. Cioè riaccendere l’economia italiana, promuovere davvero la rivoluzione verde nel Paese, tornareacreare lavoro, lottare contro le diseguaglianze, investire per innovare nelle imprese, nelle infrastrutture, e nella conoscenza e semplificare l’Italia per intercettare davvero il grande consenso delle destre». E come pensate di intercettarlo? «Far vedere che alla rabbia delle persone, siano imprenditori, disoccupati o studenti, può essere data una soluzione positivaenon effimera e sbagliata come l’odio. È una scommessa, e solo in un Pd forte si possono ottenere questirisultati e ridare forza al Paese». Questo era il primo punto. «Il secondo è quello di non commettere l’errore drammatico di chiuderci solamente nella dimensione del governo. Dobbiamo tornareaimmergerci nella società eaorganizzarci in forme nuove. Io garantiscoegarantirò che il Pd èerimarrà il luogo plurale di incontroesintesi di pensieri diversi: quello della sinistra, quello laico-azionista e il pensiero attualissimo del cattolicesimo democratico, per rappresentareeaiutare l’Italia che soffreel’Italia che vince. La nostra proposta si rivolge a tutto il Paese, questa vocazione non la perderemo mai». L’addio di Renzi destabilizzerà il governo? «Mi auguro di noefaremo di tutto perché non sia così. Certo, è un rischio, perché con una nuova sigla politica cambia il quadro di governo e io mi appello al senso di responsabilità di tutti. Io da quando il governo è partito, anzi ancora prima, dal mese di agosto, ho detto una cosa molto chiara e cioè che noi dobbiamo, nel comune programma di governo ma anche nella società, rafforzare uno spirito di comunità nei confronti dei 5 Stelle, e questo spirito noi dovremo provare a costruirlo con tutte le forze della maggioranza con contenuti chiari e spirito aperto». Senza Renzi, Speranza e Bersani torneranno nel Pd? «Questo tema è privo di fondamento. Io mi auguro che tornino i milioni di elettori che abbiamo perso il 4 marzo 2018 e che stanno tornando come abbiamo visto alle ultime Europee. Questa storia delle porte girevoli da cui uno entra ed esceèquanto di più lontano dalla realtà e dal futuro del Pd. Piuttosto, io avverto ora l’esigenza dirilanciare una radicale riforma del partito, ma per aprirci alle energie e alle idee nuove della società randoli dai lacciuoli e dalle gerarchie che soffocano il dibattito. Non ci saranno più solo i circoli: dovremo innestare nel territorio e nella rete forme di partecipazione quotidiana. Rimettere al centro le persone, le loro idee e volontà. La nuova applicazione del partito digitale che presenteremo a fine mese e che permetterà alle persone di incidere nella vita interna del Pd serve proprio a questo. A novembre poi avremo un grande appuntamento nazionale per ridefinireicontorni e la qualità della nostra proposta politica al Paese. Sì, dobbiamo essere noi a condizionare gli anni Venti di questo secolo. Dovranno essere gli anni della liberazione delle persone attraverso un modello di sviluppo nuovo fondato sulla sostenibilità ambientale e sociale. Se non lo facciamo noi non lo fa nessuno, e allora diventeranno attuali e più credibili le offerte regressive della destra di Salvini». Dopo la scissione che appello fa al Pd? «L’Italia ha bisogno del Pd, il Pd ha bisogno di rigenerarsi. Apriamo le porteachi ha voglia di cambiare. Dal 3 al 6 ottobre saremo nelle piazze e nelle strade. Faremo le tessere, presenteremo le nostre proposte: incontriamo tutti per il Paese che amiamo». AlleRegionalifarete alleanze coni5Stelle, non teme che questo allontani una parte del vostro elettorato? «Noi non dobbiamo catapultare nei territori formule politiche che potrebbero anche provocare crisi di rigetto, però dobbiamo provare, territorio perterritorio, a vedere se si riesceafare una sintesi tra partiti diversi, come eravamo noi ei5Stelle fino a poche settimane fa — questoèavvenuto nel governo nazionale — per mettere in campo nuove proposteeuna nuova classe dirigente. Non bisogna avere paura di confrontarci: noi possiamo e dobbiamo farlo. Grazie al confronto, infatti, abbiamo rotto la saldatura tra l’elettorato della destra di Salvini e quello del Movimento 5 Stelle in cui convivono pulsioni diverse». Ma vi alleerete con i5Stelle anche alle prossime elezioni politiche per sconfiggere la destra? «Io credo che uno degli errori del governo gialloverde sia stato quello di mantenere cristallizzate le differenze tra le due forze politiche della maggioranza. Questo ha generato mesi di ritardi, incomprensioni e litigi, provocando un danno immenso pagato dall’Italia e dagli italiani. Noi ora dobbiamo fare l’opposto. Cioè maturare un processo politico di confronto, di dialogo e di avvicinamento che porti a dei risultati molto concreti. Come è avvenuto adesso, nelle trattative per la formazione del governo grazie agli sforzi di entrambe le parti, si lavora per alzare gli stipendi degli italiani attraverso il taglio delle tasse, per varare un importante piano casa per le fasce sociali più deboli e aprire una nuova stagione di investimenti per le imprese. Credo che sia segno di grande maturità non rinunciare alle proprie idee ma al contempo non avere paura di confrontarsi e fare altri passi insieme».

«Credo che Matteo Renzi faccia un errorealasciare il Pd, che è ancora l’unico partito apertoecontendibile. Io resto in questo, perché sono convinto che ci sia ancora una spazio liberaldemocratico». Letta così, suonerebbe come una delle tante dichiarazioni di parlamentari contrari all’addio dell’ex premier. Ma la cosa politicamente sorprendente, nel mezzo della bufera della scissione, è che a pronunciare queste parole è Andrea Marcucci, capogruppo dem al Senato, ma soprattutto iper renziano da sempre. Il senatore della Garfagnana, dove si trova anche il quartier generale della sua Kedrion (colosso degli emoderivati che fattura quasi 700 milioni l’anno), è stato un importante sostenitore (anche a livello economico) di Renzi fin dall’inizio della sua scalata. Ma soprattutto, appena lo scorso mese di agosto, aveva messo a disposizione un’ala del proprio resort (Il Ciocco) per ospitareicento giovani che si erano iscritti a «Meritare l’Italia», la scuola di formazione politica guidata dall’ex premier. Soltanto che nel momento clou, il senatore Marcucci, un primo mandato da deputato nel 1992 con il Pli di Renato Altissimo per poi passare alla Margherita, non se l’è sentita di seguire il fu rottamatore nella nuova casa di Italia viva. «Matteo è un amicoeresta un protagonista di una straordinaria stagione di governo, il cui patrimonio resta interamenteadisposizione del centrosinistra, anche per il futuro — riflette Marcucci, che formalmente fa parte di Base riformista, corrente guidata da Luca Lotti e dal ministro Lorenzo Guerini —. Io nel Pd mi sento ancora a casa mia, se si dovesse trasformare in un soggetto politico più vicino ai Ds, mi sentirei un estraneo». E poi: «Il mio rapporto personale con Renzi non è in discussione: penso che si sia fatto trascinare dall’istinto in questa decisione, ci ho parlato fino all’ultimo e gli ho detto subito che non ero d’accordo sulla svolta che stava maturando». Adesso per il senatore, però, non sarà una passeggiata rimanere in sella come capogruppo, e oggi incontrerà tutto il gruppo dei senatori dem. È una questione di numeri, che, almeno per il momento, sembrano pendere ancora dalla sua parte. A Palazzo Madama, perso Matteo Richetti passatoaSiamo europei, i senatori del Pd sono 50: sottraendone 12-13 che andranno in Italia viva, Marcucci potrebbe contare sull’appoggio di 20-21 colleghi, una manciata in più rispettoaquelli che stanno con il segretario Zingaretti. Proprio analizzando questi numeri, e specie perché Marcucci sottolinea che non sarà mai nemico di Renzi, sorge spontaneo l’interrogativo che possa trattarsi di un’operazione di facciata perrimanere al timone a Palazzo Madama. Ma dall’entourage di Marcucci assicurano: «È una frattura politica vera, niente giochetti: il senatore crede davvero che Renzi abbia fatto una mossa azzardata, difficile da spiegare alla gente». Tant’è che mentre l’ex leader dem ufficializza il nome del nuovo partito davanti alle telecamere di Porta a Porta, il capogruppo spiega: «Io resto a fare il mio lavoro nel Partito democratico—riflette Marcucci —. Ma mai diventerò un denigratore di Matteo». E sulla possibilità che il baricentro dem si sposti più a sinistra, con il possibile rientro di D’Alema e Bersani: «Un ritorno alla Quercia? Non credo che succederà — conclude Marcucci —, resto tra i democratici anche perché ciò non accada».

Ministro Guerini, Renzi se n’è andato. «Sono molto dispiaciuto e molto amareggiato. Ogni volta che una comunità politica subisce una scissione, è una comunità che rischia di indebolirsi. Penso che militanti ed elettori siano disorientati di fronte a questa scelta che io trovo sbagliata. Ma ora dobbiamo affrontare la situazione con responsabilità, intelligenza e senza isteria». Forse anche con qualche respiro di sollievo? Renzi dice di essere sempre stato considerato un corpo estraneo. «Con Matteo ho condiviso le primarie del 2012 e gli anni in cui è stato segretario, sono stato suo vice. Dunque se lui era considerato un corpo estraneo, lo sarei stato pure io. Ma nel Pd mi sono sempre sentito parte di questa bella e grande comunità. E gli elettori e i militanti del Pd hanno dato tanto a Renzi, come lui ha dato tanto a loro». Lei era un suo amico: ha provato a farlo desistere? «Penso di poter dire di essere ancora un suo amico. Per questo gli ho parlato più volte, spiegandogli che non vedevo la ragione della scissione e di un’ulteriore divisione del centrosinistra. Senza contare che le scissioni non hanno mai portato grande fortuna a chi le ha fatte. Il riformismo ha grande impatto quando può far leva su una forza politica importante, rappresentativa, presente e radicata nella società, altrimenti rischia di essere solo sterile testimonianza e di non contribuire a risolvere i problemi dei cittadini». Sono tanti i renziani storici, compresi Lotti, Nardella e Gori che non hanno seguito Renzi. «Anche sui territori in molti hanno ritenuto di continuare la battaglia dentro il Pd. Probabilmente questa scelta appare più un’operazione parlamentare che politica. E’ una scelta che rispetto ma non condivido. Noi di Base riformista andiamo avanti a far il nostro lavoro dentro al Partito democratico». Come si spiega la decisione di Renzi? Con la voglia di contare, di sedersi al tavolo del governo con le proprie bandiere e identità? Di poter dire la sua sulle nomine e sui dossier importanti? «Mi auguro che chi aveva l’ambizione di cambiare il Paese, ora non abbia ripiegato sulla voglia di cambiare i consigli di amministrazione. Sono però certo che non sia così. Battute a parte, il Pd in questo ultimo passaggio ha affrontato la crisi di governo in modo unito e cogliendo anche le indicazioni che Renzi ha dato, tant’è che è stato uno dei protagonisti di questa svolta. Ed è per questo che, a maggior ragione, ritengo che la scissione sia ancora meno comprensibile». Grillo ha detto che l’ha fatto per narcisismo, finendo però per fare «una minchiata al pari di Salvini». Concorda? «Di narcisismo Grillo se ne intende, ma mettere sullo stesso piano Renzi e Salvini mi pare questa sì, per usare le parole di Grillo, una minchiata». Renzi pensa con il suo partito di coprire lo spazio al centro. Non crede che diversificare l’offerta politica, intercettando gli elettori moderati, possa essere utile al centrosinistra? «L’ambizione dei riformatori è parlare a tutti. L’idea di dividersi il lavoro, con qualcuno che parla ai moderati e qualcun altro alla sinistra, si è già dimostrata fallimentare per il centrosinistra. Il Pd si propone di parlare a tutti gli italiani, rafforzando e rilanciando la sua vocazionemaggioritaria». Per esaltare la vocazione maggioritaria servirebbe il maggioritario, invece si vira verso il proporzionale puro. O no? «Vedremo quale legge elettorale si farà, il tema va ancora affrontato. Se si dovesse scegliere il proporzionale, in ogni caso dovrà essere fissata una soglia di sbarramento significativa per evitare la polverizzazione del sistema politico. Ciò detto, la vocazione maggioritaria di un partito non può essere legata solo al sistema elettorale, ma all’ambizione di parlare in modo convincente a tutto il Paese, senza confinarsi nella rappresentanza di una parte di esso». Conte ha stigmatizzato la decisione di Renzi, ha detto che doveva dirlo prima. Pensa che la scissione rappresenti unaminaccia per il governo? «Mi auguro di no. Ma ogni volta che si introduce un elemento di divisione si rischia di indebolire il fronte contro il sovranismo e la destra». Il quadro dell’esecutivo e della maggioranza muta radicalmente: prima eravate in due, voi e M5S, adesso si è aggiunto Renzi. Sarà la terza gamba del governo? «Concretamente sarà un altro gruppo parlamentare che agisce nell’ambito della maggioranza. Dopodiché oggi l’urgenza è occuparsi dell’Italia, delle sfide che l’attendono, e della vita concreta degli italiani». Per affermare il suo nuovo partito, per marcarne l’identità, Renzi dovrà dire la sua su tutti i dossier. A cominciare dalla legge di bilancio. Rischia di essere un elemento destabilizzante? «Credo che debba stare a cuore a tutti dare stabilità e forza al governo. Guardiamo al lavoro impegnativo e serio che dobbiamo fare». Renzi adesso avrà insegne e titolo per far cadere il governo. Lei lo conosce: lo farà? O attenderà l’elezione del nuovo capo dello Stato nel 2022? «Sto agli enunciati. Renzi garantisce che non intende colpire l’esecutivo». Franceschini parla di «grande problema» e ricorda le divisioni di liberali, cattolici e socialisti che all’inizio degli anni Venti spianarono la strada a Mussolini. Il non detto: ciò che è accaduto dà più forza a Salvini. E’ d’accordo? «Le scissioni rafforzano gli avversari. In questo caso un avversario in debito di ossigeno. Ma se il governo lavorerà bene, come sono sicuro, questo rischio non c’è». E cosa accade al Pd dopo questa scissione? «E’ evidente che già con l’avvio di questo governo il Partito democratico è entrato in fase politica nuova che ha superato le dinamiche uscite dal congresso. Per questo è necessario che tutti contribuiscano a dare ancora più forza al nostro partito, sia nel sostegno al governo sia nel suo radicamento tra le persone, intensificando la sua vocazione riformatrice. Base riformista non si tirerà certo indietro».

«Ora il governo non sarà più schiacciato a sinistra, con noi – annuncia il deputato renziano Roberto Giachetti – si sposterà su un asse riformista». Intende dire che ora che vi siete dati una fisionomia, va riscritto da capo il programma? «No, intendo dire che andrà trovataunasintesisugliattilegislativi che andranno fatti. Oltre alla posizione di Pd, 5Stelle e Leu, si dovrà tener contodellanostra linea». Suona minacciosa, Conte dorma preoccupato. «No, affatto, lealtà assoluta al governo». Facciamo ordine. Lei era contrario all’alleanza con i grillini ed è uscito dal Pd. E ora entra in un movimento il cui leader ha lanciato questa alleanza. Strano no? «Facciamo ordine, appunto. Sono uscito dalla Direzione Pd perché ho riconosciuto di aver commesso un errore di valutazione. Comprendo la giustezza di fare un governo coi 5 stelle, ma siccome sono stato un frontman della linea “maicoicinquestelle”,hotrattoleconseguenzeemisonodimesso per aver sostenuto una posizione sbagliata. Tanto è chehovotatolafiduciaequindi ho scelto di concorrere a questaazione». Insomma, lei da radicale ha fatto suo il vecchio metodo del “centralismo democratico” che vigeva nel Pci. Votare a favore anche quando non si è d’accordo. «Io ero d’accordo con la nascitadiquestogovernoehovotatolafiduciadopoaverammesso il mio precedente errore di sottovalutazione del pericolo Salvini». Altra cosa. Lei hai fatto lo sciopero della fame per il maggioritario, ma ora sta in una forza che fa del proporzionale la sua ragione sociale. Contraddittorio no? «A leggere ciò che ha detto Renzi, mi pare di no: il proporzionale è nell’accordo di governo ma lui è contrario. Io continuerò a fare questa battaglia, ma se alla fine si arriverà ad un accordo ovviamente voterò in maniera leale. Non so se sia centralismo democratico, da radicale faccio le mie battaglie ma se la maggioranza decide in altro modo, non faccio come mi pare». Il Pd è un partito pluralista, visto che hanno cittadinanza sia Orlando sia Franceschini, sia Castagnetti, sia Gentiloni, con cui lei ha creato la Margherita. Possibile che non vi sia cittadinanza solo per il riformismo renziano? «Questo è dimostrato dai fatti. Abbiamo 5 anni alle spalle in cui siamo stati vissuti come corpo estraneo. E’ evidente che fossimo mal tollerati, ma la nuova linea del Pd, sconfessa quanto fatto dal governo Renzi. In segretaria il responsabile lavoro è colui che ha sempre contestato il jobs act, Giorgis alle riforme e nel governo è colui che aveva fatto i comitati per il No. Il Pd ha assunto una linea che non è riformista». E ora Conte dovrà vedersela con voi. Giusto? «Si possono fare contratti e quello che si vuole. Ma c’è un’infinita serie di situazioni nel quotidiano che vanno gestite con atti parlamentari e lì si dovrà ragionare. Al programma abbiamo lavorato tutti e come si tradurranno in atti parlamentari sarà da vedere. Per esempio, non voglio mettere zeppe, ma anche se non fanno parte dell’accordo di governo mi auguro che su Ius soli e suicidio assistito sia possibile fare passi avanti. Sarà nella capacità del premier trovare una sintesi».

Prime parole di Massimo Cacciari quando gli chiediamo che pensa dell’intervista su Repubblica in cui Matteo Renzi annuncia il suo addio al Pd. “Impressione positiva, è un discorso lucido. Finalme nt e”, comincia il prof. E poi aggiunge: “Certo è un peccato sia così tardivo. Se l’avesse fatto cinque anni fa la storia di questo Paese sarebbe stata diversa… Speriamo di non sentire adesso piagnistei per l’unità perduta. Renzi si è evidentemente reso conto di quello che ho predicato, invano, per anni: il Partito democratico è un generoso progetto fallito sin dall’inizio. Meglio tardi che mai, comunque”. Professore, Renzi dice: “Mi hanno sempre trattato come un estraneo, come un abusivo ”. La responsabilità è del par tito? La responsabilità è interamente sua nel non aver capito che era un estraneo. Sulle macerie del Pd ha fatto un’Opa dall’esterno: non apparteneva a nessuna delle culture confluite nel Pd e non ne proponeva una diversa. Voleva semplicemente rottamare il vecchio. Ma con la rottamazione non si costruisce una macchina nuova. L’ex premier ha rivendicato il tempismo dell’operazione: non è un agguato, dice, perché tutto è avvenuto quando il governo Conte bis era già nato. È così? Sì, ha ragione. Non ha fatto la scissione come gli altri che l’hanno fatta il giorno prima delle elezioni. È il secondo ex segretario che esce dal Pd: una maledizione? Questo dipende dal fatto che non c’è il Pd. Speriamo che grazie a questa mossa di Renzi, tardiva ma necessaria, il Pd si ricostituisca attorno alla leadership di Zingaretti, che certamente non è l’uomo solo al comando e ha le capacità di creare un gruppo dirigente. Che dovrebbe fare Zingaretti, secondo lei? Un vero congresso, con le tesi e una discussione seria, dove si può misurare con altre posizioni che esistono ma che non sono più completamente dissimili e divergenti come quelle tra i vecchi comunisti e Renzi. Lei ha capito qual è il nodo politico sul quale si è consumata la rottura? Renzi vuol fare Macron. I contenuti poi saranno quelli del suo governo, ispirati a un pensiero vagamente liberal. Che in Europa si possono incontrare con personalità come Macron, appunto. E in Italia con Conte. Un’intesa politica tra Conte e Renzi sarebbe molto logica: sono molto affini. Lei tutta questa vagheggiata voglia di centro la vede? Al momento no. In prospettiva sì: mica si può andare avanti con la battaglia tra estremismi. Non si può pensare di governare il Paese tra populismi di destra e di sinistra. Il punto è: il Pd si sposterà a s i n i st ra? Il suo destino è diventare un partito socialdemocratico. D’Alema e Bersani rientrera n n o? Può darsi, ma è secondario: non spostano nulla. Renzi riferisce dell’sms di Franceschini (fuori dal Pd non ti considererà più nessuno) e gli risponde dicendo: “Mi piace da impazzire quando mi danno per morto”. Troppo compiaciuto? È una risposta simpatica. Ma poi di che parla Franceschini, che ha perso anche a casa sua e si atteggia a grande capo? Renzi gli risponde dicendogli che lui ha portato il partito al 41 per cento e che a Firenze lui i voti li ha presi. È stato anche troppo gentile. Io dissento praticamente da tutto quello che Renzi ha fatto. Ha compiuto errori pazzeschi, per presunzione, arroganza, per ignoranza anche. Ma a differenza di Franceschini, che incarna l’eterno democristiano, è un animale politico. I sondaggi danno la cosa di Renzi tra il 3 e il 5 per cent o. È una quota a salire. E poi non mi stupirebbe se, attraverso le varie Boschi, i cerchi magici toscani, ci fossero già degli accordi con Conte. Molto dipenderà da Zingaretti: se va avanti con decisione il Pd può recuperare molto. La condizione è che il governo funzioni, altrimenti andremo alle urne in primavera. È in grado di rimettere insieme i cocci? Finché c’era Renzi doveva provare a tenere insieme i cocci. Adesso deve dimostrare di sapere guidare. E fondare un nuovo partito: nuove strutture, nuove direzioni, nuovo radicamento sul territorio. Che si chiami partito democratico o Geppetto non importa.

A Goffredo Bettini, un mese fa, ampliando la proposta di Renzi dell’accordo di emergenza Pd-M5S fino a «un governo di legislatura», lei ha varato virtualmente l’inizio dei lavori di quello che sarebbe diventato il Conte 2. Oggi Bettini è contento degli esiti del «lodo Bettini»? «Sì. Abbiamo aperto una nuova fase. Abbiamo spezzato il blocco tra populismo e antipolitica. Il Pd ora ha di nuovo uno spazio politico in cui agire. Poi si è fermato Salvini e si è evitata la rapida discesa dell’Italia verso l’abisso. Ora viene la parte più difficile. Quella di costruire attorno all’alleanza di governo un processo politico nelle istituzioni e nella società, fatto di convergenze e di lealtà, ma anche di salutari tensioni e conflitti, di non semplici sintesi». Con i sottosegretari si è completato il governo. «Ecco, questa storia dei sottosegretari l’avrei fatta durare molto meno, si è data l’impressione di cedere a logiche correntizie e c’è stata una pressione eccessiva di troppi per conquistare un ruolo. La squadra di governo, invece, è buona. Con due elementi di vera novità e rottura col passato: Roberto Gualtieri e Peppe Provenzano». L’alleanza Pd-M5S deve essere “per sempre”? «Deve maturare, progredire. Non sarà semplice, ovviamente. Sarà un percorso duro, perché fino ad ora siamo stati due mondi lontani e persino nemici. Ma ora Pd e M5S devono dialogare, superare le reciproche pregiudiziali, mischiare i loro rispettivi elettorati. Solo allargando il campo democratico si può sfidare Salvini». Non s’iscrive al gruppo di chi dà Salvini per politicamente spacciato? «Chiacchiere. Basta guardare i sondaggi, che danno la Lega ancora saldamente come primo partito. Salvini è un populista – attenzione, un populista, non un fascista — che ha costruito un movimento radicato nei territori e con delle solide alleanze internazionali. Gli è stato possibile dando delle risposteadomande vere poste da una società che si è sentita poco sicura e poco protetta nei processi globali. Risposte sbagliate, in certi casi folli. Ma sono risposte. Spetta a noi darle in senso opposto. E non ci bastano le lotte pur sacrosante sui diritti individuali e il risanamento nella dimensione del governo. In questo modo ci è sfuggito il popolo». Pd e M5S dovrebbero iniziare con l’allearsi già alle prossime regionali? «Spero di sì. Fosse per me, andrebbe fatto ovunque. Tuttavia non possiamo calare dall’alto uno schema che rischia di essere improvvisato. Bisogna valutare la maturità dei processi unitari situazione per situazione, senza forzature e imposizioni. Perché altrimenti ci potrebbe essere da qualche parte una reazione di rigetto». Non pensa che una legge elettorale maggioritaria possa favorire un’alleanza duratura tra Pd e M5S? «Sono per il maggioritario vero.Eil maggioritario vero può essere solo a doppio turno. Abbiamo sperimentato invece un maggioritario anomalo e distorto che oggi, in un Parlamento sostanzialmente tripolare, può dare risultati squilibrati e non rappresentativi dell’elettorato. Dopo la sconfitta del sì alreferendum del 2016, l’idea del maggioritario virtuoso ha purtroppo subito un colpo. Non mi sembra dunque un’eresia discutere dell’opzione proporzionale. Il Pd lo farà collegialmente nella direzione del partito». Non teme che i M5S possano ricadere tra le braccia di Salvini? «Lo escludo. Salvini tenta una rivoluzione conservatrice, fondata sulritorno ad antiche certezze come famiglia, territorio, impresa. Le ripropone guardando all’indietro, in una forma regressiva. Il M5S, al contrario, esalta il protagonismo individuale e la libertà delle singole persone. Strutturalmente il M5S e Salvini sono agli antipodi». Teme la scissione di Renzi dal Pd? «Intanto non lo chiamerei affatto uno scisma. Lo scisma è una rottura dottrinaria irreparabile, non è questo il caso. Parliamoci chiaro: da quanto tempo è sul tappeto la questione, posta da molti, amici e militanti, di una non piena rappresentanza da parte del Pd di istanze e sensibilità più riformiste, liberali e moderate? Da tanto, troppo tempo. Secondo me sbagliano e preferirei restassero. Ma se a un certo punto Renzi e quest’area decidessero di tentare un loro movimento autonomo, non griderei allo scandalo. L’importanteèche tutto rimanga sui binari del dialogo, di un rapporto costruttivo, direi di amicizia. Perché l’essenziale è ritrovarsi alleati nel centrosinistra per battere Salvini. E il male della divisione può diventare un bene, articolando e allargando la proposta delle forze democratiche». Conte può essere il federatore che tiene insieme tutti, il Pd, il M5S, Renzi? Può essere il nuovo Prodi? «Prodi è stato un gigante, in grado di battere Berlusconi per due volte. Ilruolo di Conte dipenderà soprattutto se riuscirà a consolidare una speranza per l’Italia».

Un salotto in stile jazz club, un divano in pelle e quattro amici che si aggirano euforici ed emozionati come bambini alla vigilia di Natale. Giovanni Veronesi, Rocco Papaleo, Sergio Rubini e Alessandro Haber si sono ritirati per un paio di giorni ai Punto Rec Studios di Torino per realizzare le sigle di apertura del loro nuovo programma tv Maledetti amici miei, prodotto da Ballandi Multimedia. Sarà in onda dal 3 ottobre in prima serata il giovedì su Rai 2, per sette puntate. Per l’occasione si sono fatti un regalo speciale: Paolo Conte. Il cantautore astigiano ha registrato dal vivo con una piccola orchestra alcuni dei suoi brani più famosi, prestandosi come “spalla” nelle gag improvvisate dai quattro. È stato il regista Veronesi a volerlo a bordo. Già sul set di Manuale d’amore 3 aveva omaggiato Robert De Niro di una copia di un suo disco, Aguaplano. Adesso si commuove mentre canta Gli impermeabili. Anche Rocco Papaleo ha gli occhi lucidi sulle note di Via con me: «Non avevo mai pianto in uno studio di registrazione, ma questo è un momento sublime, è la più bella canzone d’amore di sempre e io ho una venerazione per Conte». Eccolo qui l’avvocato di Asti, maglietta grigia, cappelli arruffati, ci accoglie in camerino con un sorriso affabile. Paolo Conte, come si è lasciato coinvolgere? «Normalmente non frequento la televisione, non avevo mai fatto nulla finora, ma l’idea che mi ha proposto la mia manager Rita Allevato mi è piaciuta. Abbiamo formato una bella squadra con Veronesi, Papaleo, Rubini e Haber. Io non so bene come sarà questo spettacolo, ho capito che dovrebbe essere una sorta di happening, però qui ho trovato un gruppo di amici formidabili, meravigliosi, carini. Penso che verrà fuori una cosa bella, me lo auguro». Poco fa avete registrato in sequenza “Azzurro” e “Messico e nuvole”. Ha scelto lei le canzoni per le sigle? «No, è stato Veronesi a decidere liberamente sette brani dal mio repertorio, secondo il suo gusto». Gradisce sempre l’atmosfera della sala di registrazione? «A me piace andare in studio con il materiale preparato, i musicisti devono avere tutto scritto, però poi lì si ragiona, ci si confronta, si cerca un colore tutti insieme. Il mio batterista ha sempre dichiarato che quando registro io si suona pochissimo e si parla tanto. È vero, ma è bello avere questi rapporti di creatività, di colloquio tra musicisti e anche con i tecnici». Che cosa pensa della musica live in tv? «Ne penso bene, a patto che ci sia un’equipe che lavora nel modo giusto, che riprende con cura il suono e anche le immagini, che segue la corrente musicale. Così può funzionare. Si sono già visti ottimi risultati in tv per tanti altri artisti. Basta registrare e fotografare bene». Come ricorda il passaggio dalla tv in bianco e nero a colori? «Ho sempre visto un po’ la tv come cinema, quindi sotto l’aspetto sostanzialmente visivo. Per cui ho sofferto l’arrivo del colore, perché nel cinema sono ancora legatissimo al bianco e nero, alla bellezza di quella trama. Innegabilmente ha un fascino tutto suo. Del resto sento la mancanza di certi personaggi televisivi di quel tempo, Aldo Fabrizi e Gianni Agus per esempio». Il titolo “Maledetti amici miei” richiama il film di Monicelli sottolineando che si tratta di uno spettacolo sull’amicizia in tutte le sue sfaccettature. Quanto contano gli amici per lei? «Io sono vecchio, devo tornare indietro negli anni, mi ricordo tantissimi amici, eravamo molto legati, però poi tutto è finito, non ci sono più. Adesso faccio una vita molto più solitaria di prima. Ma in questo spettacolo che potrei definire d’arte varia c’è l’impronta di Giovanni Veronesi, che da buon toscano ha il culto dell’amicizia. E si vede da come si relazionano tra loro, da come si riconoscono, dalla più piccola sfumatura». Si cimenterà prima o poi con il cinema, magari alla regia? «Non me la sentirei. Bisogna lavorare di mattina, e io di mattina me ne voglio star tranquillo, e poi non me ne intendo. Sono appassionato di cinema, quello sì. Ci sono film che mi hanno incantato. Li divido tra quelli notevoli e quelli che per qualche motivo ti attraggono. Casablanca lo avrò visto almeno dodici volte, anche Quai des Orfèvres di Clouzot, che è un’altra pellicola in bianco e nero, e poi un film a colori che amo molto, un western ben costruito, L’uomo senza paura. Continuerò a fare lo spettatore». Ci vuole tempo e tranquillità per essere un bravo artista? «Una cosa che ti piace devi godertela con calma, anche con tempi lunghi. Un artista deve saper guardare indietro, lontano. Dico sempre che invecchia prima il passato prossimo che il passato remoto. Ascolto tanta musica classica, roba molto vecchia, su Sky c’è un programma a flusso continuo, sento registrazioni magnifiche di tanto tempo fa e non ho bisogno d’altro».

DUE MILIARDI. È quanto lo Stato potrebbe complessivamente risparmiare nel prossimo anno se lo spread continuasse a restare attorno quota 140-150 punti base (rispetto ai 200 punti auspicati in aprile del precedente governo). La stima, dovuta ai minori interessi sul debito pubblico pagati dal nostro Paese, è fatta da Carlo Cottarelli, docente e direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica. A lui abbiamo chiesto di calcolare l’effetto-Draghi su conti pubblici, famiglie e imprese. Professore, quanto possono incidere le ultime mosse del governatore Mario Draghi sull’economia reale? «La Banca centrale europea fa quello che può: ha abbassato ancora i tassi di interesse e stampato un po’ più soldi, sostenendo i titoli di Stato e iniettando liquidità nel sistema. Sono provvedimenti che aiutano, sicuramente. Però…» Però? «Non è che le banche abbiano scarsa liquidità, il motivo per cui non prestano o investono di più, semmai, dipende dalla regolamentazione e dai vincoli sul capitale proprio cui sono costrette in questo momento. Detto ciò, dal punto di vista psicologico può aiutare: l’Italia resta sempre un Paese troppo esposto agli shock e agli umori dei mercati finanziari». L’economia dell’Eurozona è in frenata, la crescita italiana è vicina allo zero. Cosa serve allora per il rilancio? «La politica monetaria non è in grado di fare tutto, l’ha detto più volte lo stesso Draghi. La cosa che manca davvero è una politica di bilancio europeo, che sostenga l’economia del continente nei momenti di rallentamento. Invece, il bilancio europeo oggi è vincolato al pareggio e così non si può finanziare un programma di investimenti a livello comune con l’emissione di eurobond, che è quello che servirebbe». Le altre misure – come Tltro (prestiti agevolati alle banche) e il taglio dei tassi – quanto incideranno sulla vita delle persone? «Non ho ancora visto i dettagli, sono misure che possono servire, ma non so quanto possano essere decisive, perché in realtà vengono utilizzate da tempo. Molti dipenderà dalla gestione Ue di Ursula von der Leyen». Si aspetta che il governo giallorosso possa ottenere più flessibilità per l’Italia? «Qualcosa di più probabilmente sì, ma non mi aspetto molto. Se anche ci fosse il consenso politico, cambiare le regole europee richiederebbe almeno due anni e dunque se ne riparlerebbe per la manovra 2022. Diciamo che mi aspetto 4-5 miliardi di spazio, oltre mi sembrerebbe strano. Gentiloni è una buona nomina per l’Italia, però sarà sotto l’ala di Dombrovskis. Interessante sarà capire chi prenderà il posto di Marco Buti alla direzione generale dell’Ecofin: se dovesse essere un rigorista, Gentiloni rischierebbe di restare schiacciato, nonostante le sue ottime capacità di mediazione».