Claudio Cerasa

Ambiente, ambiente, ambiente. Ok: ma in che senso? E soprattutto: con o senza cialtroneria? In un’intervista rilasciata ieri a Repubblica, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, poche ore prima di annunciare l’ade – sione dell’Italia alla coalizione dei ministri finanziari per la lotta al cambiamento climatico, ha sostenuto che uno degli scopi principali del nuovo governo è quello di dar vita a un nuovo e ancora non chiarissimo “Green New Deal”, utile a convincere l’Europa a scorporare gli investimenti italiani in materia ambientale dal calcolo del deficit. La stessa espressione, “Green New Deal”, qualsiasi cosa significhi, è stata utilizzata dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere e il tema del “rispetto dell’ambiente”, qualsiasi cosa voglia significare, è stato il primo punto su cui Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio hanno individuato un possibile punto di reale convergenza nei giorni che hanno preceduto la formazione del nuovo governo. Nella storia recente del nostro paese, come i lettori del nostro giornale purtroppo sanno, l’ambientalismo è stato ripetutamente utilizzato come un mezzo per giustificare fini non facilmente giustificabili (dalla Tav alla Gronda) e il fatto che alla guida del ministero dedicato all’ambiente si sia scelto di confermare un ministro molto amato dai grillini (Sergio Costa) potrebbe essere la spia di un fenomeno pericoloso che merita di essere monitorato: la possibilità che il nuovo esecutivo trasformi la difesa dell’ambiente in una difesa di uno status quo fatto di veti, di vincoli, di no, e la possibilità parallela di trasformare l’ambienta – lismo in una semplice scusa per ottenere dall’Europa quei quattrini che non si ha il coraggio di recuperare rendendo più efficiente la spesa pubblica italiana. Il nostro amico Chicco Testa, a pagina tre, si chiede giustamente se la sintesi rossogialla produrrà un governo ostaggio di una decrescita felice condita con un po’ di luddismo tecnologico o se invece il governo a trazione grillina, grazie alla presenza di un ministro per le Infrastrutture favorevole alle grandi opere (De Micheli) e di un ministro per l’Agricoltura favorevole agli ogm (Bellanova), non sia tarato per portare avanti uno sforzo serio per far sposare l’ambiente con la modernità e l’innovazione tecnologica. Il tempo ci dirà verso quale direzione si muoverà il governo (su questo punto, come sulla giustizia, non siamo ottimisti) ma accanto a questi spunti di riflessione ce n’è uno ulteriore che merita di essere illuminato e che riguarda un tema di fronte al quale negli ultimi mesi si è ritrovato a fare i conti un politico a cui il nuovo governo guarda con molta simpatia: Emmanuel Macron. In molti lo hanno rimosso ma la rivolta dei gilet gialli è una rivolta che nacque contro un avventuroso ambientalismo del presidente francese che lo portò – salvo poi pentirsene – ad aumentare la Contribution climat-énergie (Cce), la cosiddetta “tassa carbonio”. La Francia non è l’Italia e Conte non è Macron, ma nonostante questo il governo di svolta rischia per almeno due ragioni di trasformare l’ambientalismo che piace al popolo in un ambientalismo indigesto per una buona parte del popolo. Sostenere le energie rinnovabili è una politica saggia che dovrebbe stare a cuore a qualsiasi governo con la testa sulle spalle ma se il governo intende davvero rinunciare ai famosi quindici miliardi di sussidi considerati “ambientalmente dannosi” dovrà mettere in conto che rimuovere quei sussidi significa indirettamente rendere più cara la benzina a varie categorie appartenenti al ceto medio che oggi quella benzina grazie ai sussidi la pagano un po’ meno (mezzi agricoli, autotrasportatori, macchine diesel). Rendere possibile una rivolta del ceto medio per rendere il paese un po’ meno inquinato (viva l’elettrico!) può essere una scelta coerente (il filosofo francese Michel Gauchet, provando a spiegare i gilet gialli agli albori, disse che coloro che avevano scelto di mettersi i gilet erano “i dieselisti di base che non vogliono pagare la transizione ecologica”) ma meno coerente sarebbe invece la scelta di assecondare il grillismo sulla partita degli inceneritori. Luigi Di Maio ha detto che il M5s “non vuole che si realizzino nuovi inceneritori e vuole che si chiudano quelli esistenti” ma come sa bene chiunque abiti a Roma e chiunque abbia frequentato la Campania prima dell’aper – tura dell’inceneritore di Acerra, non creare termovalorizzatori laddove esistono emergenze nella raccolta dei rifiuti significa continuare a creare le condizioni per avere una gestione dei rifiuti sempre meno efficiente, strade delle città sempre più piene di pantegane e rinunciare a combattere alla radice il malaffare che di solito si annida dove ci sono rifiuti che non vengono trattati. Il governo della svolta ha scelto di trasformare l’ambientalismo nel collante simbolo della rivolta contro i sovranismi populisti. La scelta può essere azzeccata. A condizione però che la difesa dell’ambiente non diventi un modo come un altro per colpire quelli che a Parigi chiamerebbero les bobos, il ceto medio italiano, e a condizione che l’ambientalismo non diventi un modo come un altro per fare quello che negli ultimi decenni agli ambientalisti è riuscito spesso con successo: usare l’ambiente, e le treccine di Greta, solo per rendere più presentabile la difesa dello status quo. Ambientalismo sì, cialtronismo no, grazie.