Daniele Manca

Mario Draghi ha fatto Mario Draghi. Ancora una volta di fronte ai segnali di debolezza delle economie europee ha agito secondo il buon senso e ha usato le uniche leve a sua disposizione, quelle di politica monetaria. Ha varato nuove misure che potessero funzionare da stimoli alla crescita.

Dietro azioni e sigle come il taglio dei tassi di deposito, il rinnovato «quantitative easing», il Tltro, non c’è altro che l’unico intento di dare stabilità all’economia europea rafforzandone il cammino. La migliore prova che si è trattato di mosse giuste l’ha data Donald Trump. Ha atteso pochi minuti e in un tweet ha espresso alla sua maniera l’irritazione per la rapidità e tempestività nell’azione della Banca centrale europea opponendola a quella della Federal Reserve americana. Dimenticando forse che l’indipendenza è il principale valore delle banche centrali, dovunque esse agiscano. Draghi si appresta così a chiudere (quella di ieri era la sua penultima riunione mensile a capo della Bce prima di lasciare il posto a Christine Lagarde), gli otto anni alla guida dell’istituzione europea che più di ogni altra viene considerata come fondamentale per difendere e sostenere l’Unione. Non è stato facile. Nemmeno ieri. Tagliare il tasso dei depositi significa dire alle banche: se vuoi tenere i soldi inoperativi sui conti della Bce ti costerà ancora più caro. Un chiaro invito agli istituti a fare quello per cui sono nati: dare credito a famiglie e imprese aiutandole così nelle loro scelte. E lo stesso si può dire per il «quantitative easing» che si traduce in acquisto di titoli di Stato affinché i governi possano con maggiore tranquillità avviare politiche di bilancio orientate alla crescita. C’è chi nel Nord Europa vede tutto ciò come aiuti non necessari agli Stati che dovrebbero imparare a fare da soli. E Mario Draghi ha dovuto usare tutte le sue abilità di persuasione per convincere i suoi colleghi che era l’Europa ad averne bisogno, non questo o quello Stato.