Ezio Mauro

Il big bang che si annunciava nel sistema politico italiano è appena incominciato. Matteo Renzi ha dirottato il Pd dalla guerra ai Cinquestelle, di cui era uno dei generali, al patto di governo con Di Maio, di cui è stato l’inventore. Appena nato quel governo, col travaglio immaginabile per un partito capovolto, l’ex presidente del Consiglio ha annunciato che lascia il Pd, per fondare un suo movimento. Nasce dunque il partito di Renzi, minacciato e negato per mesi, sempre sottotraccia nelle ultime vicende politiche del Paese, un’ombra costante che accompagnava ogni passo del Pd. Un’operazione che cambierà il profilo del governo e in qualche misura della sinistra e dell’intero quadro politico. Per ora, il leader ha promesso lealtà al premier Conte, ma è evidente che da oggi ogni decisione dell’esecutivo si divide per tre mentre si triplicano veti, quote, dosaggi, autorizzazioni.

La sinistra riprecipita nell’incubo della scissione, la sua condanna eterna, come se fosse incapace di cogliere, persino nella crisi che le democrazie stanno vivendo, una ragione sufficiente per credere in se stessa come forza alternativa, di tutela e di cambiamento. La politica trova il suo terzo angolo, aperto verso il quarto, dove abita la destra moderata. Mentre il quinto angolo, il più inquietante, è occupato interamente dall’estremismo di destra, nazionalista e sovrano, che minaccia la nostra epoca: senza scissioni. In un paesaggio nazionale in cui tutti i partiti sono nati mercoledì scorso, le culture politiche non hanno tempo di attecchire e nessun disegno di società dura così a lungo da essere condiviso al punto da formare una comunità. Il campo parlamentare sembra un brefotrofio, senza padri capaci di testimoniare la vicenda repubblicana nel suo divenire, privo di lari e penati, dunque di tradizioni e di storia. Non è dunque uno scandalo che nasca un nuovo partito, e tantomeno è una sorpresa il partito di Renzi, dopo l’ultima fase di convivenza nel Pd da separati in casa. L’ex premier, nell’intervista a Repubblica, lamenta un disagio esistenziale, sentendosi percepito dal Pd come un “intruso” o un “abusivo” — e in parte ha ragione — ma nello stesso tempo continua a chiamare gli ex comunisti “la ditta”, cioè una specie di azienda politica a sé stante, anch’essa dunque abusiva, con una produzione politica irregolare. La verità è che Renzi non riesce a essere “parte” del Pd, può essere soltanto tutto (come quando ha vinto le primarie da segretario), oppure niente, come oggi. Questo per il modo di interpretare il concetto di leadership, che secondo lui si esercita solo nel comando diretto, e non nell’influenza e nella testimonianza culturale, e soprattutto per il modo di intendere la politica e la missione del partito: innovatore ma centrista, spregiudicato ma moderato, istintivo e insofferente della tradizione, Renzi si è conquistato la guida della sinistra italiana più come un’occasione che una vocazione. Il taxi del Pd lo ha portato rapidamente a Palazzo Chigi. Quando è uscito dal governo, dopo l’esplosione di consenso alle elezioni europee e la rovinosa sconfitta nel referendum, è di fatto sceso anche dal taxi del partito. Qui è incominciato un gioco reciproco di sospetti e di interdizione: il nuovo gruppo dirigente voleva scrollarsi di dosso il peso di quella personalità ingombrante, come avviene sempre dopo una disfatta, spingendola ai margini per cercare spazio e autonomia. Renzi al contrario snobbava l’agenda, i riti e le gerarchie del partito, e usava la kryptonite che portava in tasca per delegittimare ogni tentativo di nuova leadership nascente. Il risultato è stato per mesi quello di un partito interdetto da se stesso, ostaggio delle dinamiche interne, sospettoso, frenato: impedito. Fino alla fiammata estemporanea (con una miccia accesa da tempo da Franceschini) del leader toscano nell’ultima crisi di governo, quando con un voltafaccia improvviso e un intuito preciso si è infilato nella crepa tra Salvini e Di Maio, ha sfruttato la forzatura leghista e ha portato tutto il Pd a cambiare linea alleandosi con i Cinquestelle. In questo episodio c’è il ritratto politico di Renzi: istinto, sfrontatezza, azzardo, sovvertimento, movimentismo, estemporaneità. Un leader ambizioso e insofferente, che pretende di fondare un nuovo ordine ma presume di farlo attraverso colpi di mano successivi piuttosto che con un tracciato culturale che scavi nel profondo. Con un orizzonte politico definito solo da categorie metapolitiche, perché refrattario alla distinzione occidentale tra destra e sinistra: ancora ieri, nell’intervista al nostro giornale, Renzi si preoccupa per prima cosa di avvertire che «la cosa nuova non sarà di centro o di sinistra», ma «occuperà lo spazio del futuro». Questo perimetro ideale sarà venduto come una prova d’innovazione: mentre evidentemente è stato causa di tensione tra la leadership renziana e il corpo del Pd, che a grande maggioranza ha fatto una scelta di sinistra riformista, tanto che lo stesso Renzi da segretario ha trovato ovvio e naturale trasferire questa scelta in Europa, portando il partito dentro il gruppo dei socialisti e democratici europei. Nasce dunque un partito democristiano nella centralità geografica che vuole occupare, radicale nel metodo e nel carattere, futurista nella retorica. Un mix vulcanico, irregolare, post-ideologico ma col culto del Capo, flessibile fino alla sorpresa, fedele fino alla morte, dunque tagliato come un vestito su misura di Renzi: una specie di corrente trasformata in partito, sollecitata in permanenza, pronta a ogni incursione, disponibile ai rovesciamenti di fronte, agente permanente di sommovimento. Una forza, si potrebbe dire, a vocazione minoritaria ma con la tentazione solitaria di rompere gli equilibri, ogni volta che sia necessario per l’esercizio della leadership. Per il momento, Renzi è già al governo, con le ministre Bellanova e Bonetti, e dunque promette quiete a Conte, poi si vedrà. Così, con un doppio movimento che cambia la politica dal giorno alla notte, i grillini si trovano senza nemmeno saperlo a condividere un’alleanza con il partito di Renzi, che avevano trasformato in bersaglio per anni. Si capisce che il quadro diventi instabile. Zingaretti, che stava prendendo le misure all’improvvisa resurrezione di governo del Pd, si trova stretto tra Franceschini come nuova forza egemone interna, e Renzi come forza sfidante esterna. Ha saputo manovrare silenziosamente in questi mesi, tanto che la scissione non provocherà una ferita grave nei numeri. Ma la ferita è pesante politicamente, perché colpisce al cuore il carattere del Pd come partito largo che copre da solo tutta l’area di centrosinistra, coincidendo di fatto con la superficie del riformismo italiano. È singolare che questo attacco alla cultura fondante del Pd venga da un suo ex segretario. In questo senso vale per Renzi esattamente quel che valeva per D’Alema e Bersani all’epoca di un’altra sciagurata scissione: chi ha avuto l’onore di guidare la sinistra italiana dovrebbe sentire il dovere, quando va in minoranza, di affermare le sue idee custodendo insieme l’idea costitutiva del partito, senza andarsene perché ha perso il comando. Ma la cronaca dice tutt’altro, e ci dobbiamo aspettare nuove scosse. Salvini punta a spaccare i Cinquestelle lungo la dorsale destra/sinistra che Di Maio continua a negare senza vedere la frattura che lo minaccia. Berlusconi è addirittura davanti a una scelta esistenziale tra il Ppe e il sovranismo. La sinistra radicale è al bivio eterno tra il rientro nel Pd e una nuova “costituente”. I democratici non sanno ancora che forma prenderà l’alleanza con i grillini. Conte cura il suo patrimonio di consensi pensando a dove conviene portarlo prima o poi all’incasso. Adesso arriva Renzi, sfavorito dal buio dei sondaggi, eccitato dal ritorno dei riflettori. Qualche anno fa, quand’era sindaco a Firenze, rispose così a una ragazza che lo invitava a lasciare il “ferrovecchio del Pd”: «Se mai capitasse di arrivare a palazzo Chigi, sarebbe ben diverso andarci da capo della sinistra italiana, o da passante che ha trovato per caso il biglietto della lotteria». Adesso, ha perso la sinistra e il biglietto, sperando di ritrovare se stesso. Che dire? Auguri.