Ezio Mauro

P er spiegare la crisi di governo appena conclusa in tanti siamo ricorsi al fenomeno dell’hybris, scomodando addirittura Eschilo, Erodoto e Aristotele. Troppa grazia, per la piccola disgrazia italiana. Ma indubbiamente c’è qualcosa di epico nell’uomo che costruisce con le sue stesse mani la sua sfortuna, rovesciando il breve ciclo della storia di cui è protagonista, fino a passare dalla gloria alla tragedia. E lo fa – questo è il punto – perché è dominato dalla passione per il comando, fino a trasformarlo in un totem da conquistare nella sua integralità, simboli e sostanza compresi. In questo senso, nella tradizione, l’hybris è il passaggio del limite, la fuoruscita dal lecito, la proiezione oltre il confine del consentito e del legittimo. È la tentazione dell’eccesso e della dismisura. Gli antichi parlavano dell’insolenza politica di un orgoglio che va oltre la fortuna, il successo, la vittoria, e come tale diventa una colpa agli occhi degli dei, che si vendicano. Protervia, superbia? C’è in realtà in questo stato d’animo qualcosa di meno ovvio: il senso infinito di una incompletezza, quasi un’insufficienza, il sentimento di una potenza fragile che invece di governare cerca di rassicurarsi appropriandosi di altri spazi di potestà, perché confusamente sente di non riuscire a utilizzare appieno gli strumenti politici che possiede. È dunque un inseguimento continuo del mistero del potere, sperando che un giorno si riveli, svelando infine quel segreto che inquieta chi comanda, e non sa farlo.

I n questo senso potremmo dire che Salvini ha decretato lo stato d’eccezione. Non ha innescato una normale crisi di governo, ha tentato di costruire una crisi di sistema. Sapendo d’istinto, come teorizza Carl Schmitt, che è sovrano chi ha il potere di decidere sullo stato d’eccezione, cioè chi ha la potestà – invece di garantire l’ordinamento – di spezzarlo e di ricrearlo in questo passaggio decisivo, rinnovando il sistema in base alla propria investitura, e ottenendo obbedienza. Cos’è accaduto in questo mese? Salvini prima di tutto ha decretato lo scioglimento delle Camere, con un’appropriazione indebita di prerogative altrui. Non ha infatti chiesto le elezioni anticipate: le ha pretese, come se da parte fosse diventato tutto, minacciando anche il ricorso alla piazza. Lo ha fatto, tutto questo, schioccando le dita dalla spiaggia del Papeete, invitando i parlamentari ad “alzare il culo” per rispondere immediatamente in Aula ai suoi voleri. Non è facile rintracciare nella storia della Repubblica una simile dichiarazione di disprezzo di un uomo di governo nei confronti dell’istituzione parlamentare, coi deputati e i senatori dileggiati come perdigiorno da un ministro a torso nudo e portati in Aula a spintoni. Poi il leader leghista ha immediatamente fissato una posta eccezionale per le elezioni, chiedendo “i pieni poteri”, con una formula perfettamente coerente col suo modo di procedere: una ripetuta allusione a mondi autoritari evocati per suggestione, sfiorando a uno a uno tutti i tabù della Repubblica, quasi si volesse saggiare la tenuta dei muri maestri del sistema, con una spinta subliminale che suggerisce la possibilità di andare oltre. C’è dunque un leader che non si accontenta del potere legittimo e costituzionalmente regolato che si è conquistato democraticamente, e cerca un potere supplementare e improprio che può derivargli solo da una malintesa interpretazione della sovranità popolare. Cosa vuol dire infatti quella frase? Sono stato vicepresidente del Consiglio per 14 mesi, ma non sono riuscito a governare. Un primo ostacolo erano i miei partner a Cinque Stelle, con cui ho già regolato i conti. Adesso chiedo il voto per abbattere il secondo ostacolo: non più la coalizione ma la costrizione delle regole, l’equilibrio tra i poteri, i controlli di legittimità e di legalità, i vincoli costituzionali. Datemi non solo un consenso ma un’investitura per forzare questo confine. Trasformerò il governo in un premierato, poi al momento giusto non escludo di candidarmi al Quirinale, per trasformare il Paese in una repubblica presidenziale di fatto. La Costituzione seguirà. Questa è l’unica logica possibile della pretesa dei pieni poteri. Non è difficile vedere come questo passaggio s’incastri perfettamente nella predicazione e nella politica che la destra al governo (la Lega naturalmente, ma anche i Cinque Stelle) ha fatto in questa lunga fase. Da anni infatti si è scelto di cavalcare il risentimento e la rabbia dei cittadini spiaggiati dall’onda alta della mondializzazione, senza filtrare politicamente questo stato d’animo ma anzi trasformandolo in odio, ripulsa, rigetto, cioè antipolitica. Con due bersagli: prima di tutto il migrante, che paga le tre colpe della povertà, del colore della pelle, e del peccato d’origine come straniero, dunque è perfetto per diventare il nemico universale sulle cui spalle caricare tutte le colpe del mondo. Poi il meccanismo democratico che si articola nel libero gioco dei diritti, del diritto, delle istituzioni, nel divenire della storia civile del Paese. È in questa rottura dello spirito repubblicano che s’inserisce la proposta di un potere finalmente pieno, totale, saturo di sé che cambi nei fatti le regole del gioco. Siamo dentro lo schema autocratico annunciato da Putin: la democrazia liberale non è l’unico modello possibile e nemmeno il più efficace, anzi probabilmente funziona soltanto in anni di abbondanza delle risorse, mentre esistono altre forme di rapporto tra la leadership e il popolo sperimentati nel consenso e con successo. È la teoria Orbán: si può rispettare la forma esteriore della democrazia modificando la sua sostanza, riducendola a un guscio vuoto. Non per caso questo modello ha bisogno di fuoruscire dall’Unione europea, o almeno di passare all’opposizione in Europa. Saldando l’odio di Stato contro il migrante con l’attacco ai principi liberali della democrazia dei diritti e delle istituzioni, si disegna una nuova identità nazionale recintata dalla paura e dall’avversione, minacciata da un’emergenza continua, che ci rende sicuri solo dentro i confini murati di una contro-storia egoista. Basta dunque col multilateralismo e il cosmopolitismo, la Ue e la Nato, basta con l’Occidente, sostituiti da un iper-nazionalismo chiuso su se stesso. Tutto questo è avvenuto nei mesi del governo giallo-verde, con politiche xenofobe, teorizzazioni razziste, pratiche repressive, circondato ed estremizzato da un linguaggio di intolleranza e di ferocia che i francesi chiamano “delinquenza del pensiero”. Pericoli esagerati? Ma nella teoria politica il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento dei poteri concorrenti si chiama dovunque assolutismo; il potere che istituzionalizza il carisma è bonapartismo, il potere che vuole superare i suoi limiti è autoritarismo. Ecco cosa c’è dietro la formula dei pieni poteri. Tutto questo sarebbe sufficiente per spiegare il voltafaccia reciproco che ha portato all’alleanza tra il Pd e i grillini. Ma non è così. I Cinque Stelle non hanno formulato un giudizio compiuto sulla politica di Salvini, sulla sua teoria del potere, sulla loro alleanza, salvo il caso isolato di Conte: però solo un minuto dopo che la Lega lo aveva sfrattato dal governo. Molte di quelle politiche sono state condivise, tutte sono state controfirmate e la svolta si è realizzata non per una scelta autonoma spiegata al Paese, ma perché Salvini l’ha maldestramente determinata. Così oggi il governo è partito, ma per forza di cose è già davanti a un bivio. È un’alleanza tecnica tra due movimenti costretti a incontrarsi per pura necessità o è un’intesa politica che vuole chiudere col passato e aprire una fase nuova per il Paese? Anche davanti alla forzatura di Salvini, che hanno sperimentato a caro prezzo, i grillini continuano a ripetere che destra e sinistra per loro sono uguali, anzi non esistono, come fosse possibile non scegliere: puntando su un fascio indifferenziato di consensi, e rischiando di contrapporre ai pieni poteri un potere vuoto, perché senz’anima.