Federico Geremicca
Intanto il coraggio, che non gli è mai mancato e che ha sfoderato ai tempi della difficile scalata del Pd (e poi di palazzo Chigi…). Quindi la spregiudicatezza, che magari in politica va considerata una qualità, come potrebbe confermare anche la conclusione di questa crisi. Infine il cinismo, che lo spinge sempre a pensare prima di tutto al proprio interesse politico: e che forse è la miglior chiave di lettura per questa “campagna d’agosto” dalla quale lui esce come sicuro vincitore. La golden share Perché si, Matteo Renzi ha vinto, riuscendo ad imporre – prima di tutto al suo partito ed al suo segretario – la nascita di un governo che gli darà il tempo sufficiente per render plausibile una scissione mai smentita e del quale, in tutta evidenza, detiene la golden share: va avanti o cade, insomma, a seconda della sua volontà. Renzi è dunque il vincitore: che risulti tale anche il Pd, è cosa che si vedrà… Sono diversi gli elementi che hanno portato a un risultato al quale – inizialmente – credeva solo l’ex presidente del Consiglio. Il primo sta certamente negli ondeggiamenti e nella debolezza della leadership di Nicola Zingaretti, che si trova ora a gestire una fase (ed un governo) che non avrebbe mai aperto. Quando ha capito che la sua stessa maggioranza si stava lasciando incantare dalle sirene renziane, avrebbe avuto una sola strada da percorrere, le dimissioni: non se l’è sentita, e vedremo nei prossimi mesi il risultato di una tale scelta. Il secondo risiede in un’altra evidente debolezza, quella di Luigi Di Maio e del Movimento Cinquestelle, svuotati di consenso e poi abbandonati su un marciapiede da Matteo Salvini: costretti dall’iniziativa di Renzi a scegliere tra una emorragia elettorale ed il patto col più avversato dei nemici, hanno deciso di imboccare la seconda strada. Non è stata una scelta facile, con la base in rivolta, il tandem Di Battista-Paragone a sparare sul quartier generale e molti dei leader del Movimento (a partire, forse, dallo stesso Casaleggio) assai dubbiosi sulla via da imboccare. Lo stesso Luigi Di Maio, naturalmente preoccupato per il proprio destino personale, ha giocato diverse parti in commedia, prima cercando di capire se fosse concreta l’ipotesi di una sua premiership e poi di valutare la sua collocazione nell’ipotesi di un Conte 2. Non a caso, la fase finale delle trattative è stata assai convulsa, proprio in ragione di un certo nervosismo del capo politico del Movimento che, tutto a un tratto, ha realizzato che la contemporanea presenza nell’esecutivo sua e di Conte poteva risultare realmente indigeribile per Zingaretti ed il Pd. Matteo Renzi ha seguito la complicata trattativa attraverso le sue “quinte colonne” (Marcucci e Ascani prima di tutto) con l’atteggiamento del gatto che si lecca i baffi. Giorno dopo giorno ha assistito al lento mutare dei rapporti di forza prima nel Pd e poi intorno all’ipotesi di un patto di governo che pareva fantascienza. Nel giorno delle dimissioni di Conte, si è addirittura preso la scena al Senato, parlando dopo il premier e Salvini, e mostrando – plasticamente – chi era che dava le carte. La road map Un’analisi oggettiva dello svolgimento di questa crisi, porterebbe a dire che Matteo Renzi non ha commesso alcun errore: adesso, infatti, è nella posizione di chi può rivendicare la nascita del governo per poi affondarlo – quando lo riterrà utile – con un motivo qualunque. I più maliziosi (ma anche I più informati) giurano che l’ex premier abbia già pronta la sua road map: riunione alla Leopolda dal 18 al 20 ottobre, trasformazione dei suoi “comitati civici” in partito, scissione, crisi di governo ed elezioni in primavera col suo nuovo partito. In questa road map il Pd è un estraneo. O forse addirittura un nemico: più o meno come in questi velenosi giorni di crisi.