Flavia Perina
Chissà se le destre italiane si sono accorte del “rischio francese” che si concretizza dietro l’angolo, e cioè della possibilità che i loro moltissimi voti, la loro egemonia nelle fasce popolari, le loro leadership così applaudite e influenti, finiscano sterilizzate dietro un cordone di sicurezza esattamente come è successo a Marine Le Pen: la donna che da quasi un ventennio è in vetta al consenso ma mai è riuscita a portare il suo partito al governo della Francia perché isolata da ogni possibile alleanza.
È uno scenario verosimile, forse probabile. Lo abbiamo già visto agire nei giorni della crisi quando si è attivata una larga operazione, europea ma non solo, per incoraggiare M5S e Pd ad aprire il dialogo e sostituire il governo a trazione leghista. Senza un cambio di passo, lo schema proposto dal blitz d’agosto, per molti versi emergenziale, potrebbe solidificarsi in una vera conventio ad excludendum delle forze che fanno riferimento al sovranismo. Non sarebbe un fenomeno nuovo per il nostro Paese, che ha già conosciuto nella Prima Repubblica il modello dell’arco costituzionale, la no-fly zone decretata intorno al vecchio Msi per interdirne la partecipazione al potere. Ma anche la Lega, all’epoca del secessionismo e del Blocco Padano, ha avuto il suo momento off-limits, restando a lungo tagliata fuori da ogni possibile alleanza persino nei Comuni dove faceva il pieno di voti. Anche per questo stupisce l’apparente inconsapevolezza con cui le nuove destre continuano a danzare sul filo dell’estremismo e delle dichiarazioni di guerra a tutto e tutti, dopo aver largamente verificato che quel tipo di messaggio minaccia di costruire una gabbia in cui si finirà segregati e ininfluenti (se non addirittura mostrificati). Altrove, il sovranismo è più cauto. Pure l’ungherese Viktor Orban, icona del nuovo nazionalismo europeo e della critica alle istituzioni comunitarie, ha preferito combattere dall’interno il sistema che contesta, conferendo i suoi voti decisivi a Ursula von der Leyen. Persino gli ultras dell’AfD della Sassonia, dopo aver quasi raddoppiato le percentuali, hanno bussato insistentemente alla porta dei popolari per cercare un accordo (respinto) che li tirasse fuori dall’irrilevanza e disperdesse l’aura sulfurea che li circonda. Ovunque è chiaro che vincere, essere primi, riempire le piazze, è inutile se si è titolari di una cittadinanza politica limitata, che condanna all’opposizione e alla protesta perpetua, incatenati al ruolo di campioni delle rabbie sociali. E l’obiettivo della de-diabolization è per tutti un traguardo primario: la Le Pen ci prova incessantemente da un decennio, per riuscirci ha fatto fuori suo padre, cambiato nome al partito, chiamato un ventenne a guidarle le liste nelle ultime Europee. È curioso che proprio da noi si viaggi in direzione opposta, senza tener conto dei suggerimenti dell’esperienza: l’ambiguità su alcuni temi fondanti della democrazia, la prepotenza verbale, i giochi di parole a sfondo xenofobo o sessista, magari portano voti e riempiono i comizi ma suscitano allarmi consistenti e possono sfociare in reazioni protettive repentine, in riflessi difensivi forti capaci di mettere d’accordo anche nemici giurati come fino a ieri erano Pd e M5S con la benedizione del resto del mondo. Nei talk show lo si potrà chiamare complotto, manovra contro il popolo, congiura dei poteri senza volto, ma bisognerebbe ragionarci sopra con più lucidità: il pericolo di conquistare il primato elettorale cavalcando l’estremismo per poi finirne politicamente folgorati esiste ed è piuttosto concreto.